Domenica pomeriggio; la B, ahimé, c'è stata ieri (1-3 a Bergamo, wow entusiasmo,,,); e allora andiamo: sotto un altro Malick, ché devo capire. Anzi, per comprendere meglio quale sia l'excursus professionale del regista texano, questa volta parto dal principio. E questa volta ci siamo. O meglio, dovrei dire "ai tempi c'eravamo", visto che per chi scrive è innegabile (W la modestia!) che questo "La rabbia giovane" (titolo, una volta tanto, affascinante, con cui fu tradotto l'originale "Badlands") sia l'opera più riuscita, per me forse l'unica, tra quelle create da Terrence Malick.
Sin dalle prime immagini si intuisce che il regista di Waco ha una spiccata sensibilità estetica, sa cosa ci sia di glorioso nella natura e in alcune cose che l'uomo vi ha disseminato. Malick sa riprendere gli occhi di un vacca, sconvandovi, per noi distratti, la profondità di un lavoro perpetrato nei millenni da Madre Natura, così come sa rendere allo spettatore la fisicità e la robustezza di un mezzo meccanico, amico o assassino in funzione di come il "padrone" vi si accosterà. Ormai mi è chiaro che pervadere la pellicola di un'atmosfera onirica, dimenticata, "in rada", sia la principale peculiarità di questo regista che, a parer mio, non avrebbe però dovuto mollare gli ormeggi a sua volta. Anche se, come ho già scritto altrove, è evidente come la "malattia degenerativa" che stava per avvolgere il regista fosse già presente ai primi passi del suo organismo artistico-professionale, tuttavia è davvero fastidioso stare a guardare inermi tutto questo "popò" di finezza e originalità cinematografica lentamente sprofondare in un melma ("Three of life").
Detto questo, il film in questione è davvero un ottimo lavoro. Lo scrivo perché lo sguardo del protagonista (Martin Sheen indimenticabile) rimane a lungo nei pensieri, l'apatica inerzia della rossa protagonista rallenta ogni movimento in sala, gli spazi stelle e strisce ammorbano anche le caotiche strade della città là fuori. Parole centellinate che sbocciano come quattro papaveri in un'assolata distesa giallo grano. I protagonisti che danzano con tutti i penseri dentro di sé, nessuna interferenza con l'esterno, l'ingenua costruzione di un "monumento" che attesti l'ultimo esatto punto di libertà...tutte scelte che contribuiscono a ricreare un tempo che non passa (brutale), ma un tempo che misura soltanto l'oscillazione di un'altalena, niente più; grande risultato.
Che il film permetta anche di vedere il regista saltare dall'altra parte della cinepresa e supplire in extremis a un'assenza è una chicca in più; pur ribadendo che un regista non deve e non può propagare la propria (presunta) fascinosa aura con meschini giochi al sapor di marketing spicciolo. Non lo era quello della Warner Bross, che, nella stessa occasione, nell'anno d'oro del 1973, si portarono a casa questo filmone e un certo "Mean streets" che, per il sottoscritto, è uno dei pochi degni dell'etichetta "CULT" (tutto maiuscolo!).
(depa)
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