Ieri sera, con la scusa di farlo a vedere a Elena, ho potuto rivedere, dopo undici anni, quel prezioso gioiello che è "Dancer in the dark", del danese Lars von Trier, datato 2000. E non c'è verso, l'oblio del tempo aveva annientato i fatti ma non le emozioni che, riesumate in sala Uander, si dimostrano accese e potenti come quelle di quattromila giorni fa, per nulla scolorite. Gran film.
Camera a spalla che incombe sulla protagonista come le nuvole sempre presenti a ingrigire tutto ciò che la circonda; interni e vestiti semplici, tutto l'accento spostato sui sentimenti, quelli che soli potranno portare alla salvezza, quelli del tutto opposti che inesorabilmente condurranno alla fine. A dare un volto alle emozioni umane provate o percepite c'è Bjork, la cantante dai tratti eschimesi, che consegna al cinema una prova eccezionale, da attrice più che navigata. Realistica, semplicemente perfetta. E non parlo di quando canta. Ah, a proposito. Questo film non è musical; ci va vicino lo stesso regista quando lo definisce un anti-musical (credo intendendo che si possa trattare di un musical che cerca di aggredire i principi base di questo genere), ma poco di più. Banalmente, perché le parti cantate scattano solo nella seconda metà del film; concettualmente perché non ci sarà nessun finale celebrativo dell'amore infinito tra due innamorati. O meglio non solo quello, e qui sta la forza innovativa di questo film. Si conclude con un amore sconfinato, quello di Selma per il propripo figlio, così come lo è quello che lei nutre per quel genere cinematografico a cui deve tutto: la possibilità di ricordare (la propria patria, la propria infanzia) e la possibilità di dimenticare, di scappare. Ma la fuga non vi sarà ed è questo l'altro lato di questa pellicola di von Trier, quello oscuro. Al di qua di Selma c'è l'uomo che non vuole sognare, c'è quella società che spezza ali e attacca paranchi, spegne sogni per accendere neon, chiude ogni porta e apre solo conti bancari. Nel film, se uno vuole trovarveli, c'è tutta la pletora dei difetti infami che attanagliano la maledetta stirpe umana. Rimane, come forza eruttiva capace di polverizzare l'odio, i soprusi, le grandi violenze e le piccole meschinità, soltanto l'ultima voce di Selma e quella corsa, su per le scale, della "Kathy" Catherine Deneuve che le porge gli occhiali del figlio, gioia potentissima per noi che vediamo l'anima di Selma alzarsi abbozzando un sorriso, tristezza profondissima che tira giù tutto, quasi sino al pavimento sotto la botola.
Gravissimo non avere visto questo film. Stupendo.
(depa)
che manata
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