La scorsa settimana ce l'ho fatta; dopo otto anni, ricchi di chiacchierate stroncate e di reazioni incomprese e, quindi, non partecipate, solo soletto, dopo aver già provato quell'emozione che è stata "Woyzeck", decido di fare anche io la conoscenza di "Dogville", paesino creato da Lars von Trier nel 2003. Scenario scelto dal regista danese per un romanzo profondissimo nell'animale uomo, un'opera la cui intelligenza trafigge lo spettatore (che lo "vorrà"), un film la cui originalità è evidente. Mi vergogno di averci messo tanto.[...]
[...] Dopo un mese e mezzo, l'ho rivisto con Elena. Cambiata leggermente la sfumatura di colore dell'aura che circonda la pellicola. Meno onirica, meno avvolta dalle tenebre che circondano la comunità di Dogville, ho potuto mettere maggiormente a luce quest'opera davvero notevole, per originalità e profondità. Se la prima volta che lo vidi mi concentrai maggiormente sui dialoghi, intento anche a superare l'impatto iniziale con l'ambientazione fuori dal comune, in questa seconda visione ho potuto vagare più liberamente con lo sguardo, andando a scovare tutte quelle scelte registiche che, percepite soltanto la prima volta, mi sono apparse in tutta la loro delicatezza, ricercatezza estetica. Quindi, più che sui contenuti, di primissima qualità tra l'altro (vero proprio excursus nelle dinamiche interpersonali, a tutto tondo), mi preme qui sottolineare, percorso inverso alle intenzioni del regista, il fascino delle scelte realizzative effettuate.
L'utilizzo di una scenografia così, etimologicamente, atipica è una vera e propria scossa alla salda poltrona dello spettatore in sala; è meraviglioso il percorso che deve intraprendere il pubblico, andando a togliere ragnatele dai cunicoli mai esplorati dell'immaginazione abitutinaria e rattrapita. Facile respingere le critiche di chi dice che non si possa parlare di cinema: cos'è il cinema se non immagini in movimento osservate mediante un tramite, l'occhio del regista? Ogni inquadratura è una scelta, è una firma nell'angolino in basso a destra, a volte dietro il quadro. Quindi, c'è la suddivisione in capitoli (artifizio già usato in "Breaking the waves"), c'è quella discesa iniziale della telecamera sulla vecchia radio che introdurrà la terza dimensione di Dogville, c'è il gioco di ombre e luci nere e blu scure per rendere una bella sera di primavera. Ci sono due scene/scelte stupende: la dissolvenza con cui la povera Grace che si trascina appresso la pesante ruota viene lasciata sola e l'effetto "velo" con cui viene simulato il telo che copre il camion di mele su cui Grace tenta la fuga.
Al di là di congruenze o strappi nei confronti di quel Dogma '95 di cui Lars, per altro, è padre, guardare questo film è un'esperienza a sé stante.
Se poi si vuole addentrarsi nei dialoghi...su qesto piano si raggiunge una quadratura raramente espressa in un film. Parole che là stanno e non potrebbero stare altrimenti. La voce fuori campo affascina per acutezza e vocabolario, come quella di tutti gli interpreti.
In più, non riesco a trovare difetti in un film che dura tre ore senza che me ne accorga mai.
Ottimo Lars Von Trier.
(depa)
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