Dolore di vanità

In vista delle passeggiate tra “Les dames du Bois de Boulogne”, abbiamo incontrato Robert Bresson al suo II° arrondissement. Nel 1944, la “Perfidia” aveva ancora il volto della celebrità, prima di decomporsi nei più miseri rigagnoli della società.
Nella versione restaurata della Criterion Collection, l’ultimo lavoro “commerciale”, invero un flop, del più radicale tra i minimalisti del cinema. Ispirato allo Jacques fatalista di Diderot, un melodramma cupo con la celebre coruñésa María Casarès (1922-1996), con cui fu buridda. La sua Hélène ha piantato tutto e tutto sacrificato. “La gente è invidiosa, ma io sono felice”. E se c’è un punto di contatto tra questa donna incrinata e l’insofferenza del regista è proprio questo viso, quest’idea spavalda. Jean c’è! Così come il rigore del linguaggio del futuro teorico cinematografico. Lo scontro con la ballerina Agnès al club è già Bresson.
Il bluff di Hélène getta lei stessa nella vendetta…“Au Bois!”, quelli del titolo, per la prima “esterna” nella prima mezz’ora. “Contenta di cosa, Hélène?”. Dell’“incorruptible, Agnès”?
“Il mio ombrello?”, scrupoli di madre, Jean è invisibile sullo sfondo. Ogni aggettivo per Agnès una freccia avvelenata nell’orgoglioso petto di Hélène. Comportamento “inexplicable”. Jean è l’ennesimo omuncolo del cinema, smascherato dalla prostituta Agnès. L’umile Agnès fugge, da tutto, esausta, senza più forze. Lontano dalla diabolica Hélène (“Andiamo via, mamma”), giocatrice di tiri mancini senza alcuno spirito di sorellanza, che già dall’altare sibila parole d’odio. (“Abbominevole!”). Ma Jean reste. Non sa fare altro.
(depa)

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