Sabato scorso,
abbandonato in sala Uander, ho potuto dedicarmi ad un film che, data la sua
durata, era destinato a rimanere tabu
per le consuete visioni serali (Ele, tu ne sai qualcosa?). Ma era doveroso,
perché "America oggi" (titolo italiano stranamente più incisivo dell'originale “Short cuts”), diretto da
Robert Altman nel 1993, può a ragione essere definito come la summa dell’opera del
regista, di raro spessore. La consueta eleganza delle immagini, la comprovata
abilità nel dirigere la coralità degli interpreti, verranno ad incrociarsi con
un’ironia (ingrediente altmaniano quasi sempre impiegato) di particolare ferocia.
Nessuno è risparmiato.
Frammenti di storie disgraziate (tratte dallo scrittore statunitense Raymond
Craver), sincronizzate al millisecondo, gioco d’incastri che lascia ben poche
speranze sul nostro vivere assieme. Ogni pezzo
è un colpo sferrato a tutto ciò cui siamo giunti (dopo anni di civilizzazione…),
in particolare se apparteniamo a ciò che si potrebbe definire “superpotenza”, economica
o militare, che dir si voglia. “Tu, è inutile che ridi; se guardi bene, sei proprio
tu!”: il racconto pare additare al di qua dello schermo. E’ graffio lacerante
su volti e abiti dei sempiterni e appiccicosi ipocriti sparsi per il pianeta.
La società dell’apparenza va in scena, chiamando a raccolta un cast d’alta qualità. Essendo un Altman,
non poteva mancare il sapiente utilizzo della colonna sonora, in grado di
sottolineare e ampliare quest’assurda sinfonia umana.
Tante le stilettate da parte del regista di Kansas City. Più che condivisibile,
per il sottoscritto, quella assestata verso l’amore genitoriale da quattro soldi.
Persone all’apparenza lucide cadono nella tenebra di un irrazionale
protezionismo verso i propri figli, salvo ritornare ancora più svuotate e
superficiali quando il pargolo avrà raggiunto una certa autonomia. Non così
dissimili da quella “bestia” con cui, almeno una volta al giorno, etichettano
chi capita loro vicino. Mi fermo qui, tanto dovrei essere riuscito (o per
curiosità o per rabbia) ad invogliarvi a vedere questo lungo grande film. Le tre
ore trascorrono con ritmo sorprendente, che galleggia e s’alza su di un dramma
latente pronto ad esplodere, non tanto per una presa di coscienza, invero
inattendibile, da parte dei protagonisti (cioè noi), ma, semmai proprio a causa
dell’assenza della stessa, a causa di una sorta di “rivolta naturale” dei
quattro elementi.
Mi raccomando, concentrati, perché se si perde il filo è dura ritrovarlo, data
la complessità del puzzle. Attenti
sempre, quindi, durante la visione e dopo i titoli di coda (almeno sino al
quinto drink). Questo avrebbe voluto
l’intelligente e sontuoso regista scomparso 8 anni fa.
(depa)
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