L'altro ieri sera, all'Oberdan, parentesi di cinema autentico: tra un Coppola (F.F.) ed un Anderson (W.) privi di senso cinematografico, fa ingresso nel Cinerofum il regista americano Clarence Brown, il quale, nel 1926 diresse una delle dive del muto, la svedese Greta Garbo, coadiuvata da un degno erede del mitico Rodolfo Valentino, John Gilbert: “La carne e il diavolo”, 1926.
Film che, nella prima parte, non riesce a dar sfogo alla potenza espressiva della protagonista (piuttosto statica nella veste da "femme fatale") ma che, nella pare finale, scatenata la tempesta passionale, innalza la Garbo tra le grandi: la famosa scena in cui, davanti ad un altare, solennemente, bacia la coppa già posseduta dal proprio amato è famosa, ma ancora più suggestiva, a mio parere, è quella in cui, con estrema naturalezza (la costosa pelliccia per terra, i piedi bagnati sopra di essa e una disinvoltura che quasi stona col tono della pellicola), accoglie il proprio uomo davanti ad un fuoco fortunoso, imprigionandolo definitivamente nelle proprie sabbie mobili della passione.
La regia si limita a riprendere la coppia d'oro, concedendosi pochi sprazzi d'inventiva (la primissima carrellata nel dormitorio e poco altro); per il resto, si dedica alla scenografia (i campanili e le montagne sullo sfondo) per ricreare una favola scabrosa in cui gli sguardi sono penetranti e pericolosamente vicini (la scena della sigaretta al primo incontro dei due travolti è davvero suggestiva, si tratta pur sempre di un film muto del '26) e che ruota attorno sempre agli stessi luoghi quasi, fantastici.
L'episodio della scomparsa finale tra i ghiacci aggiunge un quid di drammaticità alla pellicola, donandole solidità.
Non perfetto, ma pur sempre un tassello che il suo posto nel muro sacro del Cinema lo trova. E poi, ha permesso di introdurre al Cinerofum "La Divina", artista seria e coerente davanti e dietro la m.d.p., sino alla morte (avvenuta nel 1990, ad 85 anni).
(depa)
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