La scorsa settimana il Cinerofum, ennesima volta, in trasferta allo Spazio Oberdan. L'occasione è ghiotta: il secondo film di Michelangelo Antonioni, "I vinti", del 1953. Uhm. Questo lungometraggio, in particolarissimo modo il prologo che introduce i tre episodi in cui è suddivisa, mi fa balzare davanti agli occhi lo scontro (cinematografico e, via via, ideologico, politico) che negli anni 60-70 circondò l'opera del regista ferrarese.
Allora, il film è in tre episodi. Nell'introduzione una voce fuori campo spiega, in maniera piuttosto confusa, quale legame sociale ci sia tra il non avere più la guerra sotto gli occhi, con le sue brutture e necessità, e le nefandezze apparentemente prive di senso compiute ad alcuni scalmanati, "I vinti" appunto, vittime di una società che non offre appigli. E come il Dopoguerra abbia portato le nuove generazioni a cercare "visibilità" percorrendo le strade più folli, sinanche criminose. Ecco, si può essere in parte d'accordo, ma si dovrebbe anche avere il pudore di non abbozzare un discorso così delicato se non potrà essere esaudito, soprattutto evitando di buttare nel calderone anche i movimenti studenteschi...E quindi Antonioni attento, prima di altri, a determinati meccanismi urbani, ma che dovrà quindi subire anche l'accusa di un certo snobismo legato a doppio filo alla sua opera cinematografica.
Dal punto di vista cinematografico, il primo episodio, quello francese, ci racconta di un Antonioni già padrone della fotografia e della forza espressiva degli interpreti (l'uccisione, il corpo agonizzante, i volti più che mai caratterizzati). Un po' abbozzato nella struttura, ma la mano del regista muove la m.d.p. già alla grande.
Il secondo episodio, quello italiano, è il più bruttino, per il sottoscritto. Resta una bella sequenza girata in un buio spezzato solo da travi di legno e cemento, ma nulla di più.
Il terzo episodio, quello inglese. è il più affascinante. Da un punto di vista registico, alla pari degli altri (bella le sequenze delle corse dei cani), è sulla sceneggiature che vince la sfida con gli altri due episodi. Il monòmane inglese di dostoevskijana memoria è sicuramente il personaggio con più sfaccettature e sondato più in profondita dalla cinepresa. E' anche l'immagine più realistica degli effetti collaterali di una società eternamente in vendita.
Da Antonioni, chiunque (lui in primis, ci scommetto) si aspetta di più. E a ragione. Basta vedere qualunque altro suo.
(depa)
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