Due lunedì fa, all'"Altrove"...che ve lo dico a fare?...gli U.S.A. risposero mastodonticamente al fuoco sovietico. Sempre del 1980, "The Elephant Man" di David Lynch strappa e calpesta il cuore dello spettatore. Anch'esso, in fondo in fondo, non diverso da tutti gli altri e, proprio per questo, avverso a tutti i diversi.
La simpatica curatrice è tornata, quindi ascolto le sue consuete wiki informazioni, dopodiché, già che ci sono, ringrazio la CDIF, distribuzione di qualità di allora. Quindi mi immergo in questo bianco e nero che pare venire da un'altra epoca. Quella fine '800, dove saltimbanco, circhi e "dotti, medici e sapienti" scambiavano chiacchiere agli incroci. Il richiamo a "Freaks", più che esplicito, è scritto. Un'altra storia vera, anzi la prima, raccontata da Lynch, interessato alle proprie creazioni quanto a quelle dell'uomo di fronte a quelle della natura. Insomma, alle aberrazioni dell'animale uomo, come individuo e come massa (branco), di fronte all'anomalia/diversità/bizzarria. Stupore, ignoranza, quindi violenza autodifensiva, quindi avidità offensiva.
Non azzarda mai Lynch, in questo racconto, poiché non ve n'è bisogno. La sua "follia creativa", questa volta, la lascia agli omuncoli che circondano lo sfortunato Joseph Merrick di Leicester. Sì attiene ad un bianco e nero elegante, contrastante tutt'attorno con le escrescenze al centro dello schermo.
Quale paziente è un mostro in un ospedale che (da regolamento) non accetta inguaribili? Lynch mette a modo suo, e con intento decisamente differente, il mostro in prima pagina. Allo spettatore lo sforzo di uscire dalle catene dei concetti e giudizi preconfezionati. "La vita è bella perché so di essere amato. Sono fortunato!". Quanto amore imprigionato in chi non ne riceve.
Imperdibile.
(depa)
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