Ieri il 'Rofum si è messo in pellegrinaggio verso lo Spazio Oberdan, proselite ormai del dio della Settima di Kansas City, Robert Altman. Il miracolo vero e proprio non si manifesta ma il fedele esce dalla sala ancora più devoto: "Gang", dopo quasi trent'anni, ripropone il soggetto di Edward Anderson, già messo in pellicola col "They live by night" dell'esordiente N. Ray e che esaltò la sala Uander a marzo...
Nel 1974, però, Robert Altman, con un esercizio che contraddistigue la sua intera opera, si preoccupò soprattutto di sfiancare il genere che, per alcuni, mosse i primi passi proprio con quella storia d'amore sfrenato e in fuga, narrata in "La donna del bandito" del 1948.
Non sapevo di assistere a una rivisitazione ma, quando l'evidenza ha strappato il velo (la ragazza ingenua che ama un gangstar è 2, il quale ricambia ma è combattuto è ancora 2, totale 4 e, dopo un po', la filastrocca Bowie-Keechie-Chicamaw da pulce si fa elefente, l'orecchio ricordo), non ho potuto evitare di cominciare una stupida operazione di confronto. Stupida perché Altman, credo, non si azzardò a dire la sua con tono saccente, bensì cercando di dimostrare che il soggetto è lo spartito ("le note sono sette ma il talento è infinito", cit), poi l'artista interpreta. E lui lo fa da gran maestro qual è.
Personalmente, preferisco la potenza drammatica dell'opera di Ray, lo sguardo innamorato di Cathy O'Donnell (nulla a che vedere con l'imbalsamata, feticcia altmaniana, Shelley Duvall) e l'ingenua vitalità di Farley Granger (anche se Keith Carradine è un Bowie niente male), ma il "filtro" di Altman applicato al tòpos della fuga di due cuori ricercati, restituisce un quadro apprezzabile. Prima parte un po' lentuccia, dopo l'incidente in macchina la storia aumenta, seppur di poco, il ritmo. Ecco, il ritmo. Altman non lo cerca, non batte il tempo. Né palpita il cuore ai due innamorati, se paragonato a quello di quei due pazzi d'amore che ci commossero in bianco e nero. Il regista preferisce, piuttosto, fare Cowie-Cowie-Boogie. Sì, avete letto bene (e non sono nemmeno così stanco, anche se è tardi). Vuole destruttuare, soffermarsi tra le righe, bersi una coke fresca, mentre fuori tutta la contea (l'accademia?) è alle sue calcagna. E allora, visto che c'è ancora un po' di tempo, cosa che nel film di Ray non accadeva assolutamente, Altman si siede e, sprezzante del pericolo, fa anche dello spirito (col suo trademark@): lo sceriffo ingannato si preoccupa solo di dover andare in pensione, il grassone della sequenza iniziale non aprirà gli occhi dimostrando di essere uno sveglio...e così via.
Non l'Altman dei dieci comandamenti (addirittura l'esecuzione finale del protagonista mi pare non riuscitissima, anche se la coperta insanguinata e il piede perforato sono perle), ma pur sempre un testo sacro.
(depa)
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