Allo Spazio Oberdan di Milano, negli ultimi giorni, è stato abilmente pubblicizzato un pseudo-documentario che, sotto le mentite spoglie di un road-movie dal retrogusto kusturiçiano, nei fatti rappresenta un tentativo di bassa lega di mostrarsi autori cinematogarfici: di "My beautiful Dacia" può essere visto tranquillamente anche solo il trailer, di cui rappresenta la sequenza più riuscita, ditemi voi se l'unica...
Sì, tratti in sala con l'inganno un buon numero di spettatori, il doc-film senza arte né parte, si accanisce sugli ingenui propinando rumeni immobili, in costume o accanto ad una pompa di benzina, conservando per tutta la durata la faccia tosta di chi pretende di avere un'acuta comprensione della società e dello strumento audivisivo. La Dacia come mezzo per attraversare il ventennio '80-'90 rumeno è polistirolo che si frantuma, lasciando solo la fastidiosa sensazione di guardare un prodotto che può essere dato in pasto agli spettatori dietro di me, pronti a ripetere il nome di ogni oggetto che compaia sullo schermo ("un maiale!") o a ridere sentendo il "simpatico" idioma rumeno che pare un autentico italiano "taroccato" (le sequenze dell'allenatore).
Ecco, è questo che irrita di più: che questa "odissea" sia "stravagante e umoristica" solo per i milanesi figli degli happy-hour o per uno spagnolo (Julio Soto, uno dei due registi) o per un rumeno (Stefan Costantinescu, l'altro) non troppo innamorato dell propria terra. Provate a mostrare ad un rumeno questo film e vedremo: o non vive più là e ormai parla il bunga-bunga, oppure non credo uscirà entusiasta della visione semplicistica e un po' snob con cui è stata inquadrata quella nazione. Un popolo di cretini, parrebbe; quindi in questo insipido lavoro manca proprio quell'altra "Dacia" della medaglia che mostri la ricchezza e il fascino di un popolo sempre meno conosciuto (altra faccia che nei film di Kusturiça, per fare un esempio, è protagonista). Evitabilissimo.
(depa)
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