Qualche giorno fa ho proposto a Elena di andare a vedere un film di cui la critica (vi butto dentro, per valore ottenuto sul campo, pure mia madre, seppur debba ancora "toccare" con occhio) ha vociferato positivamente. Quindi, appuntamento alla fermata Lanza e passeggiata sino all'Anteo, zona Moscova, per vedere "Sister" (t.o. "L'enfant d'en haut"), opera seconda della regista di Besançon, classe 71, Ursula Meier ("Home" la prima, del 2008). Ripensando al mio rassegnato, malinconico e un filo rabbioso "Impossibile ormai, in due, entrare con 10 euro...", aggiusto il pensiero dicendo che, per vedere film così, ne pagherei molti di più...
Sulle evidenti orme dei registi belgi Dardenne, questo film ci racconta l'altra faccia. Quella con rughe della fatica e del male di vivere che ne consegue. Non quella imbellettata del lusso e della gioia dell'inconsapevolezza. Stupenda questa vista su una Svizzera poco raccontata, abilmente celata. Svizzera delle case popolari poco lontano dagli impianti di salita, difficoltà quotidiana spalla a spalla con l'agio ereditario. Ursula Meier riesce in tutto, sceneggiatura non straordinaria (nel senso etimologico del termine) ma semplice quanto concreta, quanto vera. Angosciante. Vengono in mente i fatti narrati nel "fratello di sala" Hunger (film corretto nei contenuti ma non nella forma): le torture fisiche toccano lo stomaco e il cervello, l'ingiustizia sociale (che può condurre, certo, alla conclusiva rappresaglia infame dello Stato) punge diretta al cuore, la poltrona della sala diventa più scomoda che mai. La Meier riesce, scrivevo, anche nella regia: asciutta e fredda, ma affascinante ed urlante. I rettangoli di cemento diventano il regno delle creature del sottobosco, tutte intente a sgomitare, ma con una loro armonia di fondo, per quanto aggressiva e disperata.
Le inquadrature degli spazi aperti, tracciati dai cavi degli impianti, concedono boccate d'aria vitale a protagonista e spettatore. Quel cielo che, nemmeno lui!, mai si dimentica che fermi non si può stare, offre se stesso come àncora di salvataggio, a km e km di perenne inquietudine.
Una sorella che non riesce a diventare tale, non può essere qualcosa di più. Figurarsi, ci hanno insegnato questo, a non vedere, a girarci dall'altra parte e tirare dritti verso il posto dove vanno tutti, il più affollato. E allora il protagonista è il rappresentante dei più soli, di quelli che non hanno il biglietto per la corsa, e rimangono.
E due individui così, questo il dente più dolorante dell'esistenza umana, viaggiano su linee parallele in senso contrario, impossibile anche sfiorarsi. Per loro, la montagna mente, la spara grossa quando racconta che qualcuno sale e qualcun'altro scende; raggiunta la vetta, stai pur sicuro, la funivia ritorna giù e, dismessi gli scarponi, scende il buio tutt'attornodentro; finito il gioco.
Attori, pochi, perfetti; musiche guarnizioni efficaci; cinepresa invisibile nel restituire con ph neutro la disperata ricerca di calore del protagonista. Finale che rischia per ambizione ma la palla non finisce in tribuna.
La pianto qui di strascrivere. Davvero emozionante.
(depa)
Concordo pienamente con la bella recensione di Depa alla quale è impossibile aggiungere mezza parola…
RispondiEliminaBello ed emozionante. Uno di quei film che ti fa esclamare: evviva il Cinema!