Ieri sera altra sortita del Cinerofum al circolo di Famigliare di Unità Proletaria, dopo aver visto J. Huston dirigere i canti del cigno di Gable e Monroe, questa volta l'appuntamento è col ciclo su contaminazioni ed evoluzioni del noir. Ad oriente, il genere tutto U.S.A. anni '30 (semplificando), è sfociato anche nello splendido cinema del giapponese Takeshi Kitano, il quale, nel 1997, si prodigò nella sua settima opera: "Hana-bi". In questa pellicola l'essenza di Kitano: poesia e dolore, ironia e morte; tutto mescolato, o meglio girato, alla meraviglia.
Elena, non avendo mai sentito nominare il regista, si aspettava la simpatica sala-bar vuota, o comunque meno affollata che nell'occasione de "Gli spostati"; ma non aveva fatto i conti col nome che Kitano si è fatto tra gli adolescenti e in "non-più-per-poco" (ma, a quanto pare, questi parlano con padri e nonni...): la sala è stracolma. Altra cosa che ignorava , e qui la colpa è mia, è che il cinema dello stravagante e profondo regista giapponese non corrispondesse ai canoni propinati a braccia larghe dal cinema contemporaneo. Se ritengo che Tarantino possa essere esistito anche perché prima Kitano gli mostrò anche la sua variante, credo inoltre che il regista americano sia stato più furbo ed attento ai ritmi del mercato. Avrei dovuto introdurre quella che è la vera forza del cinema di Takeshi "Beat" Kitano: silenzi e inquadrature fisse, il movimento è alluso, il sentimento è intuìto, i "beat" dei protagonisti (sbirri sulle righe o yakuza goffi quanto spietati) nascosti da ellissi che emozionano mille volte più che la vista di un proiettile che si avvicina in slow-motion o del sangue che schizza dal volto deformato dal colpo.
Il film inizia e Kitano si presenta, è lui fermo, immobile, con i suoi occhiali da sole, a guardare in un punto oltre la m.d.p. Questo è il suo cinema. Nessun compromesso. Il personaggio che costruisce in questa pellicola è stupendo, pacciugo elegantissimo di rabbia, rimorso, ironia e sfrontatezza. Crolla tutto attorno a Nishi, ma lui non perde per strada i suoi ingredienti, nemmeno nell'ultimo gesto.
Come scritto altrove, il film non è lento, anzi, il movimento c'è eccome; è un magma di emozioni ciò che scorre sotto le inquadrature che non mostrano pistole puntate al cuore, ma ci sono; Kitano pare voler reagire così a tutte queste ricercate e inopportune chiacchierate elargite dal cinema hollywoodiano; lui, un marito e una moglie in una stanza di ospedale, li rappresenta così come, in fondo, sarebbe in realtà: in silenzio. E' così facile trovare le parole per ogni momento? E chi mai avrebbe girato una rapina come quella di Hana-bi? Solo Kitano.Nel film, silenzi siffatti fioriscono qua e là ed è un piacere per l'udito.
Il film è, etimologicamente (appunto, "Fiori di fuoco", nonché "Fuochi d'artificio"), un'antologia pregevole di sequenze poetiche. Per riportarne una esemplificativa dello "Stile Kitano": quella dei ragazzi che giocano a baseball, stacco, la pallina rotola tra due piedi, stacco, il protagonista carica il lancio, stacco, poi spiazza tutti con uno sketch. Grande.
Il cuore di questo film-manifesto, secondo me, risiede nell'inquadratura della pistola e della sirena-giocattolo sul sedile posteriore, lì c'è tutto il cinema di Kitano: violenza ed ironia; dosati però con una formula segreta che solo lui sa, riuscendo dove gli altri non riescono, a far nascere fiori che, dopo aver colorato tutto intorno qui giù, foss'anche di rosso sangue, terminano i loro versi nel firmamento, innalzando Takeshi Kitano tra le costellazioni più luminose della Settima Arte.
(depa)
ps: a breve un editoriale su "Il corretto stare al cinema"...
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