Filmone. Luchino Visconti, nel 1954, realizzò un'opera potentissima: "Senso" è straordinario per accuratezza scenografica, per solidità artistica e, soprattutto, per furore espressivo. Scrive bene chi accosta l'autentica precisione verista di Manzoni allo stile del conte di Lonate Pozzolo. La storia è scritta dalle stupide passioni degli individui e questi sono destinati, a loro volta, a subirne le conseguenze.
Il film, in technicolor, inizia ne "La Fenice" veneziana in cui, dopo le rimostranze di alcuni coraggiosi, il microfono viene passato alla protagonista, Alida Valli (di Pola, Croazia) per gridare che il desiderio d'indipendenza non è una "ragazzata"! Che, sì, il punto è questo: "Lei è quello che è." L'Italia ha il volto altero, splendido e luminoso, della contessa Livia Serpieri. Impossibile dominarla.
Poi, qualcosa s'incrina, quella passeggiata col nemico, per una Venezia in cui è difficile veder chiaro tra nebbia e passione che tutto avvolgono, annuncia la rottura col passato (della pellicola). Strappo che si realizza con l'apparizione di quel corpo seminudo immerso tra lenzuola bianche. Da qui, la contessa Livia cambierà totalmente volto. Tuttavia, è proprio da quel momento che il pubblico la guarderà con altro occhio, l'indignazione e la rabbia sostituite dalla pena, se non proprio comprensione (accettarlo, quello mai!). Il senso di vergogna, per non riuscire a non cedere (doppia negazione mai così azzeccata) ad un nemico così viscido, che inutilmente attanaglia la donna protagonista, nello stesso tempo la umanizza, la libera.
Per questo il pubblico è in trepidante attesa, dopo la consegna di quel medaglione: che succederà?...E' come se fosse la notte prima della battaglia e che batosta! La disfatta sarà totale: quale umiliazione in quel richiudere la porta al primo "Ma se viene l'ufficiale?" pronunciato dalla serva, per non parlare di quell'attesa tra rozzi ufficiali nemici!
La gran dama è ormai senza titoli e orpelli, la trasformazione si concretizza durante la furibonda scenata sul portone. Quel "senso" torbido di tradimento, di follia, ha invecchiato la protagonista. Il vile protagonista maschile, Farley Granger, si trova a suo agio nel marcio (e io lo seguo), riconoscendo che "Sento che mi hai dato il cuore e non solo..."; ed è così che nulla potrà contro la mattatrice della pellicola: la Valli sormonta e disintegra lui nell'interpretazione; è anche vero che è il suo personaggio che ha e deve avere i sentimenti (per quanto mal indirizzati; ma si possono indirizzare?), mentre lui, in pratica, interpreta un autentico e codardo imbecille.
Una teatralità che "pompa" lo spettaore, non lo annoia, anzi, quasi lo prova fisicamente; teatralità che racconta pene d'amore con realismo concreto; lo facevano già millenni fa, ma nel cinema è perla rara.
Ma...ma con Visconti può capitare che le immagini più belle siano quelle del viaggio dell'indipendentista Roberto verso la contessa (sua cugina): scene di vita quotidiana (spostamenti) mescolate a scene campali (meravigliose); non quadretti vuoti appesi lì, bensì l'impossibilità di amare in guerra. Sullo sfondo della pellicola, una Venezia più teatrale e cupa ma meno panoramica e malinconica che in "Morte a Venezia", è scenario perfetto perché unione di vittoria sontuosa e disfatta scellerata.
Luchino Visconti re della scenografia, dell'allestimento, interni (vedere "La prostituta Clara versa da bere") ed esterni ("Custoza, verso il carro sul pendio"), opere d'arte.
Luchino Visconti profondo conoscitore del concetto di pathos (teatrale e cinematografico), lo rende puro; qua e là urla, squarci di realismo doloroso, di crudeltà assoluta (la cena a tre: "Chiedile di restare!", tremenda).
Un film devastante (sento ancora le grida...).
(depa)
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