Ieri sera, per il 4° appuntamento con “Cinema e Resistenza” organizzato
dai “Ghetto People”, pure Elena allo “Zapata” di Sampierdarena. In programma “Inch’allah”,
film del 2012, scritto e diretto da Anaïs Barbeau-Lavalette, regista canadese,
classe 1979, qui al 7° lungometraggio. Dall’introduzione…“metafora” (“allegoria!”)
dell’occhio occidentale dinanzi alla morte (genocidio), ma concretamente sul
campo, al centro dell’occupazione israeliana, dove prendere posizione è un
dovere fisico.
Sensibilmente “pugno nello stomaco” per molti in sala (9 più una pazza), per
una scrittura che non lascia spazio e per le deprimenti immagini del campo
profughi a ridosso del muro. Quell’odioso muro che da questa pellicola, e altre
ormai, ci si para dinanzi monito fallimentare sociale. Ma la pellicola è preziosa,
e coraggiosa, anche per le svariate immagini suggestive. La poesia nella miseria
emerge, soprattutto, dai fugaci ma determinati sorrisi dei palestinesi (baby
spider-man). I primi a soffrire, gli ultimi a smettere di sorridere. Peccato per
il mancato doppiaggio dall’arabo (tra l’altro rischiando di applicare nuovamente
il nostro filtro di bianco occidentale colonialista), che avrebbe permesso di
cogliere le parole resistenti dei piccoli “delinquenti” che vivono tra quelle
macerie (oggi ricoperte da altre infinite). Scrittura, fotografia e
interpretazioni, davvero poco da criticare in questa attenta pellicola
affacciata su Gaza. Dalla nostra postazione sicura di ostetrici di qualche ONG,
passaporto valido in tasca, viene facile far gli spacconi dinanzi agli imberbi nazi-soldati
israeliani…ma prendre position è tutt’altra faccenda.
(depa)
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