Nelle sale anche un africano. Il nome del suo autore è Abderrahmane
Sissako, regista mauritano già incontrato e apprezzato dieci anni or sono. Con “Black
tea”, del 2024, prende e va in oriente, assimilandone colori e visioni. L’incontro
tra culture, a volte, comporta una perdita da entrambe le parti: melò sterile.
Stavolta per il cinema africano, con Elena in direzione “Sivori”,
dove c’è Marigrade che ci aspetta, così fiduciosa dopo quel timbuctù. Dopo
due inquadrature penso alla forza dell’occidentalizzazione (che poi è dirigersi
verso il primo ATM). Sorridere per una vita triste, tra le grate. “Je dis non!”,
wonkarwainamente, caleidoscopici flussi di gente tra sbirri cinesi (!) compiacenti.
Mano fine su una realtà poco nota. Allucinazione
sociale. Riflessi di umanità differenti. Il futuro, ma in salsa dolce. Melò? Certo.
Di genere, tiene grazie agli insegnamenti da Hong Kong. Cercasi seria e
premurosa. Il tormento esistenziale del matrimonio. Perché? Per il potere che
dà l’essere servito. Grande Korka! Qualche dialogo a vuoto (medico e
restauratore). Sti maledetti crocifissi! Un po’ volatile, ma Viva Costa d’Avorio
e Capoverde! Al “siamo tutti collegati”, piccolo sbandamento per tutti e tre in
sala. Doppia ring composition intrecciata da colombe bianche, zio fa,
ci mancava che dicesse “Io dico sì”…peccato, buona fattura con la sensibilità africana
che ammicca a quella cinese, ma senza incontrare il suo sguardo.
(depa)
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