Stagioni di Stato

Ieri, con la santa pasiensa di chi non vuole mettere piede al "Corallo", abbiamo recuperato l'ultimo film di Roman Polański. Non che le mie aspettative chiedessero fretta. E infatti. Storia che dovrebbe essere raccontata e ascoltata dieci volte l'anno, quella di Alfred Dreyfus. Per la trasposizione cinematografica, questo "L'ufficiale e la spia" (2019), me ne basta una.
Ed ecco sullo schermo, in una delle sue vergognose declinazioni, la peggior conquista da parte dei popoli moderni, la Ragion di Stato. Asserviti a chi ha di più, nugoli di militari si danno un tono. Idioti più o meno consapevoli, aguzzini sedicenti di "pubblica sicurezza". "E' proprio questa l'essenza del nostro mestiere". Come dargli torto. Memento: in nessuna epoca si impedisce che una Nazione crolli nella barbarie intellettuale (se non impedendo la Nazione); mai si è al riparo dalle facili grida, dalle cagnesche grinte, dalla pigra assuefazione all'odio condiviso. Quando branchi di vigliacchi si fanno forza con la forza. Hai voglia, caro Emilio: "se bastasse una sola canzone", o la tua prodigiosa accusa, o leggere, che so, le luminose lettere di Vittorio, tuo grande "maestro", l'unico "monarca assoluto" da te accettabile, scritte da Guernsey. Perché vedi, Emilio, e anche tu, Roman, vedete, quando al capitano Henry, il quale con naturalezza rileva "Voi mi ordinate di uccidere un uomo? Io lo faccio. Mi dite che è stato un errore? Mi dispiace ma non è colpa mia. Questo è l'Esercito", il valorozzo Picquart, quest'ennesimo improvviso illuminato, replica "Questo sarà il suo Esercito. Non il mio", sta mentendo a se stesso. Oppure, leggi sopra, è un idiota. E se un cretino che, per un vile salario, si vende in TV o sui giornali è già di per sé criminale, a fortiori è un teppista (devastazione e saccheggio intellettuale) chi fa sfoggio di arma e autorità.
Anche perché senza bordereau, au revoir verité. Quindi, che ognuno se la cerchi, senza attendere Zola che assolvano la propria coscienza.
Il film scorre veloce, con la regia fluida di Polanski dedicata all'atmosfera. Pare di essere lì, apprezzano Elena e Marigrade; il che non è un mio imperativo, più desideroso di un discorso altro, di un quid autoriale, che un realismo azzimato. E qui la patina è davvero pervasiva.
Il protagonista, Jean Dujardin, tanto apprezzato nel muto post-litteram che gli valse un Oscar (...), si atrofizza a metà tra Massimo Lopez e Borat, e mi lascia lì, come fossi su un divano pomeridiano, più attento ai miei wafer, che alla successiva indagine.
Finale tutt'altro che sontuoso, con siparietti leggeri (le gelosie per le lettere del povero esiliato...), che regalano un'agognata boccata d'aria dal torrido umano. Per una volta, però, didascalico è più che positivo, doveroso. Una volta.
(depa)

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