Triade colorata

Settimana scorsa. Film in scia con le opere orientali infiltratesi nelle nostre sale, ultimamente, in barba al virus dei tamarri. Ed è bene che le bobine possano spostarsi come da articolo 13 dei diritti dei loro padroncini umani, poiché "Il lago delle oche selvatiche" (2019) è una bellezza per gli occhi, con ritmo gangster di grande qualità. Da non perdere, questo quarto lungometraggio di Diao Ynan classe 1969, come Elena e io non abbiamo fatto.

Macchina da presa dai pedinamenti sinuoso, anche i personaggi si spostano senza scossoni, seguendo, l'eleganza avvolge anonime periferie, controllate da Triadi più o meno credibili. I guerrieri delle Yamaha notturne non troveranno, che ve lo dico a, il sorprendente accordo. Quindi scatta la molla, le pareti s'avvicinano, il claustrofobico dà di matto. Ma la pellicola dà respiro, grazie al tocco sapiente del regista cinese. Rasputin balla con nonchalance e con la stessa si appresta a freddare il nemico di turno. Bonney noir, tra pioggia, ombre e fumo. Il movimento s'impenna, un angolo di laghetto kurosawiano pare il centro del fuoco, i colori si mescolano in direzione del colpo. Non più m'interesso del chi e del come, tant'è bello guardare i quanti e i dove. Con andamento nouvelle vague, ma rossa di sangue, si va verso la fine, guardando tutt'attorno, sprezzante pericolo, a bocca aperta. Juri parla di Refn, che ancora non ho conosciuto, è una pellicola new rock, con una rissa inziale dal montaggio afrodisiaco, prettamente di genere se vogliamo ("Se non vuoi venire, vado via", "Ferma, aspetta"), d'atmosfera, come deve: protagonista senz'anima; ma il film ne ha, eccome.
(depa)

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