Dovevamo essere proprio cotti quella notte. Nel loculo di via Gramsci, già dimora del buon Baracca, certo il sonno ci sopraffece per cause altre (e alte). Sì perché ieri sera, in sala Valéry, "Il maestro di Vigevano", film di Elio Petri del 1963, ha tenuto lo schermo per tutta la durata, con ironia e profondità. Ingredienti che, passati all'arte di Alberto Sordi, esplodono in un personaggio di grande drammaticità.
"A mt 16 sul livello del mare, centro principale della Lomellina", Vigevano con le sue "fabbriche e fabbrichette" di scarpe, calzaturifici familiari, fa da scenario al conflitto lavoro-vita privata. Lavoro, che al di fuori del mercato rampante, frustra e prostra. Vita privata che si piega di conseguenza. Un maestro "elementare", tòpos di meschinità e sciatteria, nella città della metro-calzatura, dove il provincialismo spinto erige la scarpa a status symbol, indice di prestigio e rispettabilità ("Mi diceva sempre mio nonno...puoi trascurare tutto ma non le scarpe!", dimenticando che tutto partì dalla più pratica necessità), dicevo un maestro, col suo stipendio e l'ormai dimenticata autorità, sfiora quotidianamente il tracollo.
E Sordi era maestro sul serio, nel rappresentare questa nevrotica precipitazione umana e sociale. Col riso amarissimo, essendo troppo a sud ("Minigolf!"). Petri segue lui, il professore di ruolo, così come quello non di ruolo, con quindici anni di più (trenta nello spirito e nel corpo), che ritenta ogni maledetto concorso, con delicatezza e sensibilità. Questi due colleghi-amici uniti dalla mala sorte, che passeggiano tra gli alberi che circondano il centro storico, il Ticino e gli stabilimenti industriali. Lontano dalla "Piazza più bella d'Italia", dove i portici spuntano veleno e il caffè è sempre amaro ("E' sempre così, un'ora di dolcezza, due di amarezza"). Dignità e umiliazione son concetti morali che, in quanto tali, possono annientare esistenze.
Le parentesi surreali, sogni (desideri) ad occhi aperti, più spesso incubi ossessivi, che troviamo in questo film, annunciano uno dei marchi di fabbrica del regista romano (già qualcosa dell'esasperazione dell'individuo era nel precedente "Giorni...", tutto esploderà coi successivi, come ne "La classe operaia..."). Personaggi sopra le righe, allucinanti, come l'intrallazzone finanziario ("spaghetti, 53!"), sono cappellai matti come tanti attorno a noi.
Graffiante sino a far male (la morte del "compianto" Nannini), Petri trentacinquenne realizza un formidabile mix di ironica e drammatica rappresentazione (lo stacco tra la prova audio che incastra il povero Mombelli e le conseguenti botte "pubbliche"). Ovviamente, Sordi lo consentì.
(depa)
Visto e apprezzato ieri sera.
RispondiEliminaCondivido tutto quello che hai scritto aggiungendo un'accento su quella involuzione sociale che stava nascendo in quegli anni di "bum economico" post-guerra e che sarebbe diventata una delle malattie della societa attuale: "la continua ed esasperante ricerca del soldone a qualunque costo". A tal proposito, bellissima la frase del maestro "Sordi" alla moglie: "se ti dimenticassi che siamo poveri, noi saremmo felici"... ma lei non puo'...
Bless
Bubu