Oggi pomeriggio, all'"Oberdan", Akira Kurosawa ha narrato un'epica storia del Giappone del XVI secolo, con sontuosa orchestrazione, pur fedele alla propria essenzialità stilistica. "Kagemusha" ("L'ombra del guerriero"), del 1980, chiama a raccolta tutti gli elementi naturali, vento, terra e fuoco, per mostrare le debolezze dell'uomo. Un crescendo di rara potenza espressiva, che deflagra nella sequenza finale.
Il maestro che venne da Tokyo incornicia suggestive sequenze, dalla prima, introduttiva, in cui solennemente viene presentata la figura del potente signore Shingen e dei suoi due kagemusha (sosia). Poi si passa al racconto di questa logorante guerra intestina tra diverse famiglie giapponesi, per la conquista dell'allora capitale Kyoto. Sequenze di battaglie ricche di fascino, con risultati ora realistici ora epici. Il rosso acceso del sangue si confonde con quello del tramonto, striato dai colori degli stendardi dei vari reparti, cavalleria e fanteria. Kurosawa alterna fasi avvolte da una sacralità tutta orientale (militare) ad altre più sbottonate, sempre memore della necessità di non allontanarsi da quel popolo che quelle guerre doveva subirle pagando con la vita, sacrificando con rabbia e silenzio la propria esistenza. Scelte stilistiche da scuola cinematografica, come quella di non mostrare la truce disfatta conclusiva, se non al termine: il risultato è ciò che conta, il valore ed il coraggio prima, l'inutile morte finale; grandezza artistica che esplode nella sequenza dell'incubo (i grandi non si fanno problemi ad azzardare una falsa ingenuità; anche i piccoli, purtroppo, ma con quali risultati?). Sottolineo anche l'interpretazione del protagonista, Tatsuya Nakadai, per forza di cose caricato di responsabilità, ma capace di coprire tutte le complesse sfaccettature necessarie. Un affresco dai colori decisi che emoziona per tutta la durata.
Ps: occhio agli stendardi.
(depa)
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