Ahia… Mi sono cacciato in un bel
guaio… Dopo aver visto “Il figlio” di
Jean-Pierre e Luc Dardenne, ho scoperto che non è recensito sul ‘rofum e quindi
mi tocca…
Pellicola del 2002, fu presentato
al 55’
Festival di Cannes, ha ricevuto una menzione speciale della giuria ecumenica,
mentre il protagonista Olivier Gourmet ha ricevuto il premio per la miglior
interpretazione maschile. E fin qua bastava anche Wikipedia… Ora mi butto…
…a carpa, o meglio, con la Carpa,
cioè sfruttando un passaggio di un suo commento che ho letto recentemente (ovviamente
dopo aver visto il film, “Roma città aperta”, recensione di Albert), nella
quale sostiene (belin, ma cosa sostieni?) che “Dire che non è successo nulla è
un po’ come sbagliare mira, è come andare a caccia con un fucile dal mirino mal
calibrato. Nel cinema non deve succedere qualcosa, sta già succedendo. Che il
regista sta girando.”
Mentre guardavo il film mi è
tornata in mente questa frase, infatti i fratelli Dardenne propongono ancora
una volta (drammatiche) emozioni vere e reali, vissute e trasmesse. Il disagio
di un uomo che si trova di fronte ad un sentimento che non capisce, che vuole
approfondire, indagare, vivere e manifestare, al contrario della sua ex moglie
che semplicemente sviene all’idea folle di lui, che sa benissimo essere tale. Non
sa perché lo fa, ma lo fa.
L’arte sta tutta nelle immagini che
sono per lo più, come ho imparato essere “costume” dei fratelli belgi, riprese
a spalla, nelle parole (poche) e nei giochi di sguardi (tanti, ma minimali),
che trasmettono le emozioni che il falegname Olivier e il sedicenne apprendista
Francis provano. Uno maestro, l’altro allievo. Il maestro sa e risulta più
curioso che vendicativo, mentre il ragazzino non sa che Olivier è il padre del
bambino che a undici anni aveva ucciso e che sa chi è lui.
Mi sono interrogato, stupito, commosso,
immedesimato, ho sperato e mi sono preoccupato. Le mie idee e posizioni in
materia di giustizia, vendetta, perdono, rimorso e rancore sono state, spesso nell’arco
della pellicola, totalmente rimesse in discussione. E, alla fine, mi è rimasto
addosso una sorta di malessere empatico misto a benessere emotivo che non so
spiegarmi fino in fondo (della serie, quando l’emozione surclassa la
razionalità). Ho visto un gran bel film, un’ora e mezza mi è letteralmente
volata e sul nero finale (fantastico: improvviso e “aperto”) ci sono rimasto un
po’ male perché avevo ancora voglia di emozioni e di darmi ulteriori
spiegazioni, di ridare predominanza al mio essere razionale e, fondamentalmente,
e qui chiudo il cerchio, “non era successo niente”! Per poco meno di un’ora e
venti su un’ora e mezza di pellicola: un falegname che lavora in un centro che
si occupa del reinserimento di ragazzi disadattati assume il ragazzino che, cinque
anni prima, uccise suo figlio e i due lavorano insieme. Punto. Ohu! Ma che
schifo è il cinema!? Miao.
Terzo Dardenne che vedo e terzo
Dardenne che mi lascia senza fiato. Emozionato.
(Ste Bubu)
Altro gran bel Dardenne. Concordo con la tua recensione.
RispondiEliminaLo stile dei fratelli belgi, qui, è spinto all'estremo, a tre anni da "Rosetta"; i passaggi e le sequenze tipiche dei due maghi della cinepresa che adorano, però, muoversi tra assi di legno e strumenti di ferro (sporcarsi di grasso e segatura), realizzano un film claustrofobico, angosciante. Gli spazi di verde selvatico, che la ragazza dovette attraversare sino allo stremo, sono stati sostituiti da quelli angusti della falegnameria, luogo assordante per orecchie e spirito.
Lavoro e sofferenza cotruiscono una tensione emotiva di fondo che non lascia un attimo di respiro al protagonista; in perenne affanno con la vita. Ora crudele, ora, se non speranzosa, volitiva e determinata.
Ottimo.