In sala Valéry, dopo un'intensa settimana di sproloqui cinematografici, Elena ed io siamo riusciti ad ingranare la marcia delle visioni. Mino suggerisce, noi accorriamo. Dice: "Garage Olimpo" del regista cileno, d'origini italiane, Marco Bechis, e noi recuperiamo DVD e pigiamo play. Pellicola del 1999 che tratta dell'atroce pratica del sequestro-tortura-assassinio perpetrata sistematicamente dalla dittatura argentina '76-'82. Che dire? Lo fa bene, dipingendo ora con eleganza d'arte, ora con rudezza di documento, l'atroce affresco statale dei desaparecidos. Uno dei tanti, dei tutti.
Sin dall'inizio, lampante la ricercatezza nella regia, pulita nelle panoramiche e precisa nei movimenti macchina. La fotografia e i costumi anni '70 ben catapultano in quell'ora disgraziata. Poi, lasciato il contrappunto alle belle musiche sudamericane, proprio quando Elena provocava spavaldamente, "Beh, non mi pare così sconvolgente" (curiosamente incurante dei sequestri di stato, già di per sé agghiaccianti), si scende agli inferi. Inizia la tortura autentica, la più violenta e subdola, quella della follia umana.
Le panoramiche di cui ho accennato sopra, oltre la valenza estetica, hanno dalla loro l'intelligenza di un significato espresso in maniera chiara, di un prezioso a disposizione di chi voglia. Di chi desideri riflettere e, perché no?, spingersi sino a quando vengono le vertigini; quando si secca la gola di fronte a tanta assurda ingiustizia. Più che permettere al pubblico l'agognato respiro, in effetti, paiono offrirgli anche quell'occasione per dare corpo alla tragedia umana descritta (indifferenza).
Sullo schermo, un horror tutto umano; tra il pubblico in sala Valéry (due ingressi, indovinate chi), l'orrore più realistico.
Se ha una pecca è quella della figura della madre e, più in generale, della rappresentazione del "mondo esterno", affetto da una sorta di approssimazione, nella recitazione, nella rappresentazione, nei dialoghi. Ma per quanto intravisto nell'interessante extra contenuto nel DVD, Bechis sembra aver avuto tutto sottocontrollo, effettuando scelte consapevoli; in questo caso, più che un mero taglio documentaristico (comunque utile), si cerca la pura rappresentazione del male, la stessa d'ogni quando e dove. Quindi, non tanto l'analisi storico-politica che ha portato a quell'assurda istituzionalizzazione del crimine (di qui i dialoghi all'osso e i silenzi alienanti), quanto le dinamiche legate alla sua attuazione. Perché, la storia lo insegna: oltre a chiederti se potrà accadere, meglio guardarti già attorno.
Tra le altre, "Che cosa c'entra la politica?!" pare la domanda posta dalla madre e dalla pellicola tutta. In effetti, si tratterebbe d'altro, di violenza allo stato cristallizzato, escrescenza folle che pare vivere da sé. Ma se la Politica non c'entra quando ad una (seppur minima) dissonanza seguono le folli reazioni dittatoriali; alla Politica si può chiedere di diventare occhio attento ad ogni piè sospinto, non più delega silenziosa e servile, bensì presa di coscienza costante, col gesto in prima persona: unica vana speranza che uno Stato non prevarichi.
Bello lo stacco con dissolvenza nella luce che se ne va con gli interrogatori e intensa l'ellissi finale, forte quanto la didascalia all'ultimo buio: monito, già dimenticato, all'umanità.
(depa)
Bechis espulso dall'Argentina, dove viveva, nel '77 ci suggerisce una ragione, una delle, della forza di questa pellicola.
RispondiEliminaRendiamo grazie a Mino, Nuestro Senor del Carmen, per la proposta.
Non c'è di che.
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