Questa sera, ancora Jarmusch. Ed è stato un piacere, perché il film è uno di quelli che viene voglia di raccontare ad un amico: "Daunbailò", del 1986, confermò la voglia e la capacità di Jim Jarmusch di raccontare storie e personaggi con tratto leggero, ironico e semplice. Spingendo al sorriso, ma con retrogusto che si di "gioco alla vita", cui partecipare, in ogni caso.
Cinema di situazione, questa volta non sketch disgiunti (per quanta caffeina o nicotina ci fosse dentro), né un libero girare nel fasullo arbitrio di ciascuno, ma un racconto: tre personaggi affascinanti cui dare il braccetto, tutto un mondo attorno che ce la mette tutta per far sì che diventi un'avventura da scavezzacollo ed ecco il risultato: caso e rovina, amicizia e carattere. Roberto Benigni, Tom Waits sarebbero già sufficienti a rendere la scena imprevedibile, a dare alle espressioni dei protagonisti qualcosa di bizzarro e fascinoso; ma è con John Lurie e le sue cicatrici che, secondo me, il tutto s'amalgama, catapultandoci in mezzo a questo trio indimenticabile; anche lui musicista, benché mai arrivato alle vette del cantante californiano dal vocione inconfondibile, dopo la buona prova del precedente "Stranger than paradise", si conferma più che abile davanti alla m.d.p. Il bianco e nero di Jarmusch è impeccabile; che siano le strade di New Orleans (bellissime immagini e musica iniziali), le pareti incise di una cella, o le acque tarkowskiane di una palude verso il Texas, l'occhio è soddisfatto: ci si può concentrare su quei tre e sui loro frizzanti dialoghi frizzypazzy. In questa favola da consumare veloce, anche Nicoletta Braschi diventa la ragazza che tutti noi vorremmo incontrare in una baracchetta sperduta, in cui fermarsi e scrivere ai compagni di dolce sventura.
(depa)
(depa)
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