Cronaca di una Schabbach qualunque


Ueila, ciao 'Rofum, quanto tempo! In questi ultimi giorni, io e Marigrade, ci siamo recati in una remota regione della Renania, l'Hunsrück, nella Germania sudoccidentale, dove il regista tedesco Edgard Reitz (nato nel 1932 proprio in quelle lande) ci ha amabilmente intrattenuto con un lungo racconto di un migliaio di minuti, fatto di vita, morte, amore e guerra; di volti. Insomma, una splendida storia che solo la memoria, con l'aiuto dell'arte, può conservare: "Heimat", del 1984.

Questo affascinante racconto, suddiviso in 11 capitoli, ci consegna il ricordo di una famiglia, di un paese, di un'epoca che non ci sono più. Heimat è luogo natio; può essere la casa, il cortile, la vallata attorno, il posto da cui in tempi moderni si è ben costretti ad allontanarsi, quello in cui ambientiamo i nostri ricordi più profondi. La lingua tedesca, si sa, copre angoli che nessun'altra riesce a raggiungere; per il regista, il russo "rodina", madrepatria, ci si avvicina. Quei luoghi della memoria sono cosparsi da figure ormai quasi leggendarie, ma che furono di carne ed ossa. Quelli narrati dalle splendide fotografie mostrate in questa pellicola, ricche di sorrisi e sguardi lontani, vi entreranno nel cuore.
Uscito qualche anno dopo il "Berlin..." di Fassbinder, un po' se ne avvicina, un po' se ne allontana, affascinato e scontroso. Come è giusto che sia; siamo lontani dalla grande metropoli, gli spazi sono altri, non si soffoca ma si soffre ugualmente, perché poi, a ben vedere la guerra fa tabula rasa; non è vero che produca, che acceleri il benché minimo sviluppo; anzi, si riparte ogni volta; peggio: si perde sempre qualcosa. Si va all'indietro; e ciò che si era conquistato lo si deve abbandonare, per non trascinare ulteriore peso addosso. L'odio, che è seme e frutto della guerra, trova humus fertile nell'ignoranza delle piccole comunità rurali, ma può anche incontrare il prezioso ostacolo di un'atavica solidarietà che proprio non permette di odiare senza ragione. Ragione della terra, almeno, non gli arzigogoli abbozzati da volponi coi baffetti, più farabbutti poiché più deboli e affamati. In "Heimat", troverete tutto questo e molto altro. Non troverete un individuo Franz, schiacciato tra sotterranei lugubri e fumi nazisti, bensì un intero villaggio sconvolto dalle bombe e dai cambiamenti che non lasciano il tempo di capire.
Reitz ci racconta alcuni "1919-1982", quelli dell'Hunsrück, appunto. Con sontuosi piani sequenza, suggestive carrellate ed emozionanti quadretti viventi (immortalati anche su foto, perché sono meravigliosi: gli occhi di Maria, le rughe del nonno Mathias, i fiori rossi di Ernst), ricchi di sfumature e sapientemente orchestrati (la splendida sequenza del ritorno di Paul dalla guerra, nella primissima parte, in cui il ragazzo s'affianca al padre fabbro fedele). Profonda ricerca estetica e psicologica testimoniata anche dalla grande qualità del doppiaggio italiano, personalmente supervisionato dall'autore.
Col trascorrere degli episodi qualcosa s'è perso, il bianco e nero diminuisce (ammetto che ho trovato difficoltà a comprendere, di volta in volta, la scelta di girare a colori o in b/n; idee?), l'intensità pure, proprio perché aumenta la polvere, di anno in anno, sui Simon, sui Wiegand e su tutti gli altri che abbiamo conosciuto. Si corre verso anni rapidi, si rimane in superficie. S'è consumato quel senso di heimat, appunto; un po' per la semplicità di uomini piccoli (Wiegand, Eduard, Glasisch), un po' per la stupidità di uomini grandi. Quando tutto pare scomparso, ecco riemergere il ricordo, il tempo trascorso di uno spicchio di popolazione in mezzo al nulla e in mezzo a tutto. Franz Biberkopf passa dalla Renania-Palatinato e accompagna Maria a ripercorrere i volti di tutti. Babilonia è lontana, ma brucia metri al secondo, oggi. Ecco il motivo per cui questa splendida opera epico-realistica, per me, sia un documento da tenere vivo.
(depa)

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