"Tutti uguali e liberi!"

Ieri, in prima serata, il Cinerofum ha conosciuto un altro pilastro del cinema giapponese: Kenji Mizoguchi, 1989-1956, vinse il Leone d'Oro di Venezia per tre volte di seguito, dal 1952 al 1954, l'ultima proprio col film proiettato ieri in sala Uander: "L'intendente Sansho" è un racconto drammatico che affonda le radici nella tradizione medievale nipponica, "quando il Giappone era ancora avvolto dall'oscurità".
Sapete come mi si accartorcia il naso quando sento parlare di premi. Al di là che Mizoguchi sia unanimemente ritenuto dalla critica maestro della sua arte (al pari del più celebre Kurosawa e del meno conosciuto Ozu), qualcosa vorrà dire. Tre rondini fanno primavera inoltrata. E poi, il rigore formale e la forza espressiva del cinema del regista di Tokyo è lampante. Dissolvenze che son carezze sul viso dei due sfortunati protagonisti. Questa favola del passato sulle difficoltà della vita, "tanto dolorosa", sul male sparso (prepotenza, schiavismo, corruzione, discriminazione di qualsiasi tipo, sessismo in particolare) che opprime le nostre esistenze, è raccontata attraverso il sali e scendi del "ragazzo di Mutsu". "Severo con se stesso, compassionevole con gli altri", questo il dettame ereditato dal padre esiliato ed ucciso per "troppa magnanimità". Il ragazzo di Mutsu non ha la testa ben salda e, davanti alla crudeltà tutt'attorno, sbanderà e vi cascherà pure lui. Salvo poi, col ricordo degli anni felici, puri, rientrare in carreggiata; arriverà persino ad abolire la schiavitù e a riportare i valori di eguaglianza e giustizia nella sua provincia, pronunciando un accorato discorso, con risonanze socialiste, dinnanzi agli ex compagni di prigionia (è vero che l'autore accenna anche alla presunta incapacità degli uomini liberi ad autogestirsi).
Pellicola che spinge a riflettere sui valori della famiglia e della correttezza; favola allegorica fortemente drammatica su letto di bianco e nero purissimo. Ecco il mio primo Mizoguchi, provatelo anche voi.
(depa)

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