La realtà che consuma

Cinema all'aperto nella calura agostina di Milano. E mosquitos agguerrite. Questa volta, nel cortile del Conservatorio, ci siamo riusciti. Ecco le impressioni raccolte durante la visione dell'ultimo film del regista romano Matteo Garrone, classe 1968: "Reality" è un film che mi ha colpito positivamente, poco spazio per immagini e parole inutili, sintesi amara del dramma che sta dietro alle barbare dinamiche delle nostre società dei consumi.
Dopo aver visto "Gomorra" (ma nient'altro, sigh) e averlo apprezzato, mi sono diretto al cinema un po' Ringo Boys (ve l'ho detto che è "dei consumi"): da una parte timoroso di fronte a un cinema italiano che mi frega sempre, dall'altra fiducioso nell'opera attenta del regista riscontrata in quel mio primo incontro. E alla fine, per una volta, la fiducia è stata ripagata. Questo film, vincitore, proprio come il suo precedente, del Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes 2012 (in genere un premio "affidabile") mi ha colpito per fattura e profondità. Nulla di nuovo, o meglio: ha l'astuzia di rifarsi alle acute commedie che i grandi maestri italiani esportavano nel mondo, ma altresì ha la capacità di fare ciò senza stroppiare, senza crollare negli abissi della parodia e della commedia che diverta ad ogni costo, divenendo pellicola o troppo didascalica o troppo superficiale. Il film, altro che comico, è drammatico eccome. E' autentico baratro quello che ci viene mostrato attorno al protagonista Luciano (sequenza inquietante quando si aggira nella piazza indeciso su come comportarsi; grande prova di Aniello Arena). E' credibile assai tutto il vuoto cui andrà incontro. I personaggi di "Reality" sono, appunto, reali, più che mai rigonfi di speranze e di sentimenti (il fatto che siano grandiosi partenopei ci restituisce colori e suoni accentuati), sbalzati però in una falsa atmosfera, delimitata dalla vuota notorietà dell'attimo propria della televisione. Il "Grande Fratello" è la trasmissione, per definizione, atta a ricreare una realtà altra, ma le TV scoppiano di programmi in cui l'aspetto fisico o l'eccentricità caratteriale vengono indicati come gli unici indici di gradimento. Il quadro è allarmante e che ci sia un legame strettissimo tra ciò che ci propinano i mezzi di comunicazione e le espressioni socio-politiche del nostro paese sgangherato (con la recente Sentenza, che bello, c'è stata l'inutile "prova del 9") è possibile chiarirlo leggendo uno dei mille testi pubblicati, se la propria testa non basta.
Oltre i contenuti: il film mostra la buona padronanza del mezzo cinematografico, più sobria di quanto di creda, da parte dell'autore. Non solo la panoramica iniziale è splendida ma l'ottima fotografia (colori ad alto contrasto, tutto può diventare cartoon in questi tempi fasulli, anche le meravigliose ma cadenti case del centro storico partenopeo) e lo stile registico saranno mantenuti su alti livelli per tutta la durata del film. I protagonisti spesso sono inquadrati di sbieco, quei 45° che permettono di cogliere le espressioni del soggetto principale, senza perdere di vista quel brulichio di conoscenti che lo circondano. Napoli e la sua gente, ancora più che se si fosse scelto un altro scenario, mostrano, dopotutto, il lato migliore. Perché se il rincoglionimento è diffuso su scala nazionale (e mondiale, senza dubbio), solo lì è presente quell'unità affettiva che può davvero permettere di riderci su. E tirare avanti. E' uno scorcio di umanità ricreato con poesia e crudo sgomento. La colonna sonora alla Burton (Danny Elfman), sogno brutto, incubo bello, è perfetta nel sottolineare la perdita di presa sulla realtà.
Il finale è apprezzabile, non prevedibile, intelligente invito a riflettere piuttosto che ad esigere un "FINE" sullo schermo e poi via, tutti a vedere chi è stato nominato.
Consiglio di guardarlo con attenzione. C'è poco da ridere.
(depa)

1 commento:

  1. Finalmente un film di denuncia contro i reality show merda!
    Approvo in pieno l’indagine atta a demonizzare questo insano mondo dell’apparire che sempre più sta prendendo piede nella nostra società, proposta attraverso l’esperienza, non troppo inimmaginabile e per questo inquietante (sindrome da GF?!?), di un uomo semplice e molto sicuro di se che arriva ad impazzire da tanta è la voglia di raggiungere quel favoloso mondo di plastica.
    Mi piacerebbe però che fosse girato anche un film che vada ad indagare le deviazioni mentali e le turbe di chi ce la fa ad entrare in quel mondo, ma questa è un’altra storia…
    Ottima sceneggiatura che mi ha emozionato per l’analisi proposta e perché coinvolge inquietando, com’è giusto che sia! Per il resto sono pienamente d’accordo con l’analisi di Depa.
    PS: “La vostra gente stima gli uomini quando sono ricchi: perché hanno molte case, molta terra, molte squaw (donne), non è così?... Bene, diciamo allora che il mio popolo mi stima perché sono povero. Questa è la differenza!” (Toro Seduto)
    Liberi tutti!

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