Ciao Cinerofum, ieri sera il regista milanese Marco Ferreri ha fatto il suo ingresso non-ufficiale nella tua umile storia. E lo ha fatto portando con sé un'opera davvero complessa e, forse per questo motivo, ancora più affascinante: "Dillinger è morto" è un film del 1969. Non è difficile per struttura e contenuti, ma per la forma: deve, a mio parere, essere vissuto intimamente, come viaggio introspettivo in ciò che eravamo, ciò che siamo, ciò che, inutile mentire, saremmo voluti essere...
Ferreri aveva già girato una decina di film, quando si cimentò in questa prova anomala ed ambiziosa: ambientato quasi interamente in un appartamento, in tre o quattro stanze, con dialoghi pressoché nulli, e con scene così normali da risultare surreali...immerse in una scenografia che è un po' casalingo-rustica, un po' popArt-radicalChic, ci narra una notte rivelatrice di un uomo che sin dalle scene iniziali pare mancare di qualcosa; si pone, sì, meno domande di chi gli sta attorno, ma si ha l'impressione che covi qualcosa, un gesto liberatorio. Diventando la summa di tutte quelle forze che, nella nuova, tecnologica e consumistica era (tutti concetti esplicitamente consegnati al pubblico tramite le parole scritte di un fugace amico/collega o tramite quelle sterili e banali pronunciate da una televisione priva di argomenti), aggrediscono centripetamente l'uomo obbligandolo da una parte a non cercare al di fuori di sé, ad isolarsi, dall'altra a desiderare per sé solo, a quell'opera di compensazione materiale che già altri film ci hanno enunciato.Il tocco è davvero d'autore, lo stile di Ferreri (vedi "La grande abbuffata") si staglia evidente: dissacrante, graffiante, usa per questo colori contrastanti e scenografie che diventano tane, in cui i protagonisti possano, finalmente, impazzire un po' in pace.
In questo film, che sprizza ricercata poesia da ogni inquadratura, le parole sono poche; al massimo, a parlare ci pensa la fantastica colonna sonora, che diventa un modo per riportare a galla i ricordi (del protagonista e degli spettatori). Ferreri ci spiega questa scelta mostrandoci una telefonata in cui parla soltanto uno dei due interlocutori, l'altro (la cameriera) non riesce a spingersi più in là di un "fatalità" miagolato con superficialità: l'incomunicabilità non deriva da fattori esterni (come una momentanea solitudine) ma è a sé stante; l'uomo è solo per costruzione.
Un percorso nei ricordi, nell'insoddisfazione, nel vuoto, nella distanza, in cui si può spaziare. La stupenda sequenza del balletto delle mani permette proprio di distrarsi da sé, di prendere una boccata d'aria, prima di rituffarsi in un'apnea che, finalmente ed ineluttabilmente, non farà che peggiorare le cose...
(depa)
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