Cinema o sala Valéry? Al cinema danno un cartone animato giapponese in odor di Studio Ghibli; vale la pena tentare: è estate, si fanno due passi, lo diciamo agli altri. La sorte vorrà che l'unico a rispondere all'appello mi gratificherà con una menata di palle lunga dall'uscita (del cinema) all'entrata (di casa). Eppure, "Quando c'era Marnie", diretto da Hiromasa Yonebayashi nel 2014, non è stato così noioso, come invece ripetuto con scarso senso della misura. Molto malinconico, sì, ma anche intenso.
Visceralmente "Studio Ghibli", coi suoi momenti del più e del meno, le quattro parole scambiate e i silenzi naturali. In questo episodio, privo del contributo del mentore Miyazaki, protagonista è un male di vivere, quello che non permette di godere della presenza degli altri, ma soltanto dei paesaggi e, al massimo, dei fantasmi con cui popolarli. Anche se in sala ci sono parecchi babani (l'"uscita" di uno dei quali, come sottolineerà il suddetto guastafeste nel post-visione, scatenerà l'unico momento d'ilarità in sala), non si tratta propriamente di un film per bimbi sognanti. La protagonista ha bruschi quanto credibili sbalzi, inflessioni dell'animo che la spingono lontano, destinazione se stessa. Cogli occhi incredibilmente intrisi di malinconia e inquietudine, Anna Chan ha il fisico fiaccato da un segreto che nemmeno lei. Tra una danza gioiosa e, di nuovo, "all'improvviso, silenziosa", estrarrà il suo dente, tornando a sorridere e insegnarci qualcosina. Intenso.
(depa)
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