Questa settimana di cinema contemporaneo s'è conclusa ieri sera con la mia consueta e solitaria capatina all'"Oberdan" dove, con analoga prontezza, è in programma un ciclo dedicato alle pellicole del regista e interprete canadese, Xavier Dolan. "Ho ucciso mia madre", del 2009, fu il primo lungometraggio del giovanissimo e promettente autore, che mostrò già tutti i connotati del suo cinema, ironico, intenso e caparbio.
Nella carriera ancora in incubatrice dell'enfant prodige del Cinema, questa pellicola rappresenta certamente un passo importante. Immaginatevelo a 16 anni, qualche brufolo sul viso già statuario, sguardo tenebroso e ciuffo ribelle, intento a scrivere il soggetto del proprio primo lungometraggio, laggiù, un vero miraggio. Poi in giro, a cercar di raccattare due soldi da qualche coraggioso (anzi molto, non son bruscoli); tempi duri. Molte porte in faccia, qualche "vaffa" e alla fine...
Rispetto alle ultime sue, il carattere low budget di questa sua prima pellicola si sente, senza disturbare, anzi (ci mancherebbe!); se da un lato i grandi mezzi permettono un allungo in una certa dimensione (qualità delle immagini, effetti visivi, fotografia), dall'altro quelli scarsi "obbligano" a spingere le pareti della stanzuccia che si ha, ad esplorare i sentieri di una qualche originalità (vedere le immagini mosse riprese sull'autobus). Per il resto, questo film ha il sapore di un diciannovenne che scalpita, davanti la m.d.p. e dietro: inquadrature ardite, spavalde, sequenze creative e rabbiose (dal fascino tutto sommato facile, quelle coi dripping di pollockiana memoria; già meno nella loro conclusione). I conflitti tra figlio e genitore spesso paiono davvero inventati, inconsistenti, a voltarsi indietro, ma quanto sono di piombo e granito, insormontabili, quando si è lì davanti. La pellicola ci racconta uno scorcio adolescenziale, con realismo ed ironia. Riuscendo miracolosamente a non stonare in alcun frangente (questa una delle più grandi doti del regista). Tranne il dramma che, improvvisamente, pervade le violente invettive del figlio irrequieto, nei restanti momenti si respira una brezza leggera; scelta saggia, che testimonia una presa di coscienza di sé proporzionata, in grado di suggerire di aspettare, per quel momento.
Rallentamenti e accelerazioni accompagnate da melodie accattivanti, sequenze scomode atte a "spigne sempre più in là", provocare perché starsene seduti non si può (fuori da una sala cinematografica): Dolan l'ha sempre fatto. Ed è bello anche ritrovare le due ottime Dorval e Clément. Qualche immaturità la si può pur scorgere, così come nella sua ultima opera; il fatto, però, è che di ventenni immaturi così, ce ne son pochi...
(depa)
Ciao 'Rofum, vado a Trieste e torno, se vedemmu.
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