Sabato scorso, un po' scomposto, mi sono diretto solo soletto verso l'"Ariston". Dopo un siparietto incommentabile con una signora molto più scomposta di me (ride e ride), entro in sala dove mi attende l'ultima opera di Pedro Almodóvar: "Dolor y gloria", mellifluo quanto melenso, è un'astuta carrellata della memoria che, nelle pretese del regista dovrebbe consacrarlo tra i grandi. Ahimé, come suoi illustri colleghi, lo schianto sulla vetrina allestita è fragoroso, perché una centrifuga glamour, con zenzero, ricordo e passione, non è sufficiente.
WB marchio chiaro, son loro che distribuiscono nel nostro paese cotanta beltade. Miseria della poetica, Banderas va a rilento, perché è così che ci dobbiamo sentire. Una grotta uscita da una fiaba (beato il regista da piccolo), ogni escamotage per far esclamar un buon borghese. Voci e musiche fuori campo. "Nessuno era più solo...". Tra piastrelle e cucine laccate si assiste al figo amarcord del regista castigliano. La dependencia. Y la redundancia (come dipingere la strato...di smalto). "Mano e schiena". C'è un tumore, un cancro, a rendere tutto più doloroso y glorioso. Un premio al terminale. Mierda seria brizzolata. Paraciurlo dentro. Perché, dopo tutto, che mi siano raccontati i ricordi più o meno fedeli di Almodóvar, mi alletta ben poco. Psicanalisi d'accatto, potete usare un Harmony come farmaco generico. I casi sono due: o il film è fatto su misura della tizia in cui mi sono imbattuto all'ingresso, oppure costei la sapeva lunga sul valore della pellicola.
(depa)
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