Abbiamo quasi rischiato di perderlo, l'ultimo film di Kim Ki-Duk, datato 2016, uscito nelle sale in queste settimane. Così non è andata ed, anzi, in occasione de "Il prigioniero coreano" tutta la sala "Film club" a disposizione per Elena e me. Comodità estrema, quindi, per volgersi a questa pellicola meno allegorica e visionaria del solito, trattandosi di Ki-Duk, ma non per questo meno profonda. La disumana distinzione e separazione tra individui mediante frontiera, la ridicola sceneggiata di stati e nazioni, con tutto il codazzo di retorica ed idiozia (capitalista e militare): proprio non riusciamo?
Comincia la proiezione e il "Sivori" offre un imperdonabile e non richiesto "salto" nei titoli di testa, a fortiori poiché digitali...ricambiamo e passiamo avanti.
Come spesso nel regista sudcoreano, nelle sequenze introduttive le scintille che avvieranno il semplice ed intricato incedere degli eventi. Sullo sfondo la tragica fiaba umana, coi personaggi afflitti da assurde imposizioni piovute dal "cielo" o dalle luccicanti tesorerie: come quella di non poter perdersi, né ritornare.
Ki-Duk prova a fare ordine sull'attuale confusione etica e sociale, percorrendo temi a lui cari.
La solita nostalgia verso un passato più faticoso, forse, ma più gratificante ed umano: riparare un giocattolo, gesto arcaico che non solo i sud coreani hanno disimparato.
Da notare che ciò che il regista fa esigere dal "suo" protagonista è l'elementare benessere, senza spazio per bandiere e patrie retoriche: significativo che siano parole di un nordico. Quando Nam Chul-woo mostrerà la propria fedeltà allo stato, lo farà con gesti più indotti da anni di lavaggio di cervello che da autentico sentire. D'altra parte, a pronunciare il disperato "vorrei morire" sarà una sudcoreana. La stessa che ammetterà "paese libero ma difficile viverci senza soldi", annoso busillis dell'animale politico moderno. Non così libero, evidentemente, a meno di scambiare lusso con lucciole e semplicità con lanterne.
Trattandosi di Kim Ki-Duk, la storia risulta insolitamente lineare, spesso didascalica, a palesare le incongruenze dell'odierna società: celebrazioni pubbliche contemporanee a torture.
Ci hanno insegnato (obbligati è un termine forte ed infine avvilente, sul lunghissimo termine) a scegliere, quindi preferire: la commedia di una violenza con apparente diritto umanitario (ma con tanti dollari in più in circolazione) o la violenza senza tale apparenza. Bella roba.
La pellicola si aggira attorno a questi temi, senza calcare la mano, anzi alleggerendoli su di un piano di sottile, ma nemmeno troppo, surrealismo (certo, la telefonata ai parenti della squillo era più che evitabile, se non includendola nel meccanismo paranoico che avrebbe potuto fare di lei una complottista filo-governativa).
Poetico, accorato e volitivo. Quanto potrebbero di più gli uomini, rispetto a coloro che li governano.
(depa)
Tre giorni fa, l'11 dicembre, è morto questo luminoso astro del firmamento cinemautoriale, d'alito internazionale, Koreano nel midollo. Il Cinerofum lo ha adorato appena incontrato, per accompagnarlo quando la distribuzione italiana si degnava, nel suo cinema di cruda e alta fantasia, spazi feroci, luoghi rigeneranti, creature dell'umano pronte a scattare. Pioggia vento neve sempre presenti per Kim. Lo faremo ancora.
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