La settimana scorsa, da parte dei ragazzi dell'"Altrove", altra proposta stupefacente. Grazie anche all'interessamento della casa di distribuzione "Reading Blooms", tutta italiana e dedita alle chicche indipendenti, sia Elena sia io abbiamo potuto iniettarci questo "The connection" (in italiano "Il contatto"). Trattasi di trasposizione cinematografica della newyorkese Shirley Clarke (1919-1997), realizzata nel 1961, di un'opera del drammaturgo connazionale Jack Gelber (1932-2003), messa in scena due anni prima da "The Living Theatre". Visto con gli occhi di oggi, questa pellicola dirty e sfrontata, senza perdere in fascino, magari mostra qualche ruga, ma provare ad immaginarsi nelle sale dove la pellicola uscì (poche suppongo), fa venire i sudori freddi...
Il pomeriggio di un gruppo di jazzisti eroinomani narrati tra documentario e fiction già rappresenta un plot piuttosto delicato. "Hollywood", si sa, mal sopporta questo cinema "autonomo" che si fa beffe di generi e schemi consolidati (privi di rischi economici). Figurarsi, quindi, se confezione e contenuto fanno a botte per vedere chi è il più guappo. "Holly" sbatte la porta (di legno) e per i capelloni è meglio andar Altrove (esatto!). Shirley Clarke, forse non aspettando(si) altro, fece come i coraggiosi e agì comunque, in barba alla barbosa censura. Ciò non toglie, però, che il restauro del 2004 e la recente distribuzione della "Reading Blooms" hanno reso quel po' di giustizia (materiale ed artistica) alla poco nota filmografia della regista.
Autrice in grado di mettere assieme un meta-film ironico e profondo, geniale nell'impostazione (non solo farina sua) ed avvincente nel ritmo. Perfetto nella scrittura: bellissimi gli stacchi rappresentati dalle perfortrance musicali di queste libellule ferite del jazz, con le loro ali ancor (più?) scattanti, rapide, libere ed unite (synchro). Le note della botta stravolgono spartito e partito. Euforia, down party e luci spente. Su e giù. Purulenza di un'astinenza, il bagno di sudore di un'ecstasy di note blu, assoluto e sincero (non così dissimile poi da quello di altri stinchi di predicatori).
Con alcune trovate vincenti, come il foruncolo/il collo di Leach (idea suppurativa e grandiosa, che non verrà dimenticata da una certa filmografia). Riuscitissimo nel montaggio, nel sonoro, nei dialoghi ("si droga solo quando è felice"), nella fotografia. Sequenze stupende (la Signora Salvezza, l'hula hoop, le irruzioni cabarettistiche del Radio-man gesticolante, più che mai plausibili in quel contesto del tizio della radio). Dettagli meravigliosi (la finestra col riflesso rivelatore, ma nulla verrà nascosto). Realistico nelle dinamiche della fattanza. Insomma di raffazzonato c'è ben poco in quest'opera ben studiata e realizzata, al di là di ogni affettata improvvisazione. Anche se, in effetti, non sorgono dubbi riguardo alle capacità di una metà circa della squadra sullo schermo, di costruire mondi coi loro strumenti, di improvvisare, appunto, con piano, sax o contrabbasso tra le braccia. A loro il merito di aver reso con corpo e suoni la complessità di quel mondo che fu più di una musica.
Ma chi sono, invece, questi grandissimi attori? Chi è "Leach", strafatto impavido deambulante? Si trattò del newyorkese Warren Finnerty (1925-1974). E "Cowboy"? Chi diavolo è quel pusher che non conosce la prima regola d'oro? A quanto pare fu un altro newyorkese, Carl Lee (1926-1986). Il dotto e sarcastico Solly non fu altri che Jerome Raphel (1925-2012), indovinate di dove? Il povero dolce Ernie fu interpretato da Gary Goodrow (1933-2014), "che ve lo dico a fare...". Pare di conoscerli tutti da anni. Volti già visti, magari mai sfiorati, come geniali tossicodipendenti cui rivolgere ricordo e sorriso.
(depa)
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