Pure François Truffaut nel 1968 disse la sua. Lo fece alla maniera che lo rese celebre, con l'ironia, frutto di profondità e leggerezza, che sola può incorniciare gli amori fugaci e capitali dei giovani aprili. "Baci rubati", proiettato lunedì pomeriggio all'"Altrove" all'interno della rassegna "Intolerance '68 - La lutte est finie", accarezza soltanto gli anni della contestazione, parlando al massimo di un'inadeguatezza complessiva della società, cui rispondere, se non con un sasso, almeno con una smorfia e, possibilmente, con un bacio.
"Que reste-t-il de nos amours?" cantano i titoli di testa di Charles Trenet e la risposta è uguale alla domanda. Rimangono gioiose scottature, dolorosi sorrisi, travolgenti valzer tra gigli della valle e sirene del Mississipi. In pugno niente. Quindi meglio sfiorarsi, per non lasciare lividi. La camera di Truffaut è tutta lenti e sguardi per questa "gente formidabile". Monsieur Tabard, con la sua morbosa ed infantile professionalità (in pratica è venuto su come un cacciavite, mero strumento di produzione); sua moglie, irraggiungibile angelo azzurro d'una notte; il detective sgamato, un po' logoro e sporco, perso nelle sue indagini; Christine Darbon è una sciocca borghese ragazzina: sarà la donna della vita (poiché, innegabile, "con un biscotto sotto, quello sopra non si rompe").
Interessante l'impostazione voluta dal regista: le burrasche adolescenziali sono già state. Si intuisce un passato tosto per il nostro Antoine Doinel "nove anni dopo" (Jean-Pierre Léaud), se è vero che la disperazione lo portò, volontario, ad arruolarsi. Ma ora si è ripreso, pronto a quei voli di tutti i giorni che lo renderanno (lui che può permetterseli, nella rue parallela a quella in tumulto) uomo abile al gran salto nella vita.
Leggerezza necessaria, poiché l'amore assoluto non esiste, solo la roulette degli incontri: sans cesse. Ed è bello così.
(depa)
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