Una decina di giorni fa, in sala Valéry è passato Robert Bresson, col suo cinema dalle passioni sotterranee, dagli sguardi fissi verso un orizzonte lontano, solitario ed, ahimé, ineludibile. "Diario di un ladro" (t.o. "Pickpocket"), del 1959, racconta della solitudine metropolitana, incatenata all'argent ed alle sue strutture, incapace di essere risolta da un autentico sentire comune.
"Questo film non è un poliziesco...", premette l'autore francese, ma una disamina sociologica del crimine (furto) senza giudizio. Tramite la danza del borseggio, Bresson esplora da antroplogo la necessità (non ancora malattia) tutta cittadina di avere soldi, prima ancora che un'esistenza (se non una fugace e illusoria "Per tre minuti..."). Sopravvivere è gioco d'abilita delittuoso. Il passaggio dal particolare all'universale è automatico, per chi non vuol solo partecipare.
Con la vicinanza e la delicatezza del suo accorato, non calcolato minimalismo, si dipana la nuova comunità, priva d'affetti (ma ricca d'effetti), povera di legami emozionali, che inganna sul ritenere il furto l'unica alternativa al lavoro (semmai ne è un attacco). Una cravatta e un vestito esigono moneta ad ogni costo, meglio (più alienante) se ottenuta con mezzi azzardati e rischiosi, prima ancora che illeciti.
Povero Michel, troppo tardi imbattutosi nella sua Jean.
Grande opera.
(depa)
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