Quella di giovedì scorso, come ho già scritto, è stata una buona serata di cinema, caratterizzata dalla visione di due pellicole di due buoni autori; il secondo spettacolo, sempre al City, offriva l'ultima opera del gallese Peter Greenaway, "Eisenstein in Messico", con tutti i colori cari all'autore, tutte le sue luci, le sue insistenze e provocazioni. Viaggio caleidoscopico nel Messico e nell'idea di passione e morte con cui quel paese volge lo sguardo al sole; ma anche racconto intimista su di una scoperta di sé che, in soli dieci giorni, sconvolse il regista russo, teorico maniacale del montaggio sino a non riconoscersi, a non comprendersi come summa di tutti i propri istinti e di quell'Altro...
Basta essere preparati, con Greenaway. Non sempre, però, è sufficiente. A volte sono necessari alcuni minuti per allinearsi allo stile, alla missione artistica dell'autore. Ancora una volta, la messa in scena dell'altero regista ripropone alcuni topoi a lui cari: un luogo domestico viene caricato scenograficamente di significato o, anche, di significato scenografico. Un letto o una doccia, s'impadroniscono del palco, sfumando in un non luogo teatrale, cui lo spettatore non dovrebbe badar troppo (cosa resa non troppo agevole, di solito, dalla bellezza delle immagini, nonché dalla bramosia di perdersi negli esercizi più o meno evidenti del regista). Nel vorticare di luci e colori, sovrapposizioni e split-screen, Eisenstein è rappresentato come mai in precedenza: macchietta stravagante, capelli sparati, sintomo di un'energia, di una sensibilità fuori dal comune, scattante quasi come a riproporre la sua rigorosa analisi del movimento. Può capitare di sorridere, stupirsi, offendersi, perdersi, quando si guarda un film di Greenaway, anche in Messico, la corsa non tradirà chi ha pagato il biglietto. Però, continuo coi miei però sull'autore gallese, esteta che è impossibile non apprezzare. Il gallese ha un chiodo fisso bello grosso, proprio dietro la nuca. Ma lui è un tipo tosto e, se ce l'ha, ce lo mostra. Ecco tutto, ma proprio tutto, intero, quello che avreste voluto sapere su Eisenstein e la sua patologica verginità; questa l'elegante e spavalda, oltraggiosa e intransigente ricetta tradizionale greenewaiana. Però, dicevo, alla lunga il velleitarismo del regista esonda; per quanto affascinante, il troppo stroppia (il piano sequenza rotatorio carpiato tra Eisenstein e i suoi agenti americani, debole perché fine a se stesso). Ciò non toglie che, correre appresso ad un Greenaway che lavora ed elabora un cinema personalissimo, sia in ogni caso un esercizio cinematografico più che sano.
La più golosa ed ambiziosa sfida per un cineasta, seppur celebrativa: (s)montare Sergej, spezzandolo, sezionandolo, scomponendolo, azzardando una sequenza scandita, inconscia vendetta, da un orologio, da dieci giorni, da uno sconvolgimento di sé.
(depa)
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