Ciao a tutti. Giovedì scorso, io e Mr Brown, abbiamo dedicato 88 minuti alla visione del film "Ultrà" di Ricky Tognazzi, datato 1990. Film culto della nostra generazione, l'abbiamo visto tutti; più volte. Ma rivederlo oggi, dopo tutto quel che è stato, e proprio in questo delicato momento per la cultura di gradinata, è una sensazione nuova. Strana. Il film consegna allo spettatore uno spaccato del pianeta curvaiolo, del mondo tifo, quello più accorato, quello più passionale ed estremista.
Quella zona di ciascuno stadio, quel settore di ogni società, in cui vanno a schierarsi, uniti e compatti, i cosiddetti "ultras", i tifosi folli d'amore per quella maglia da calcio, involontarie vittime sacrificali che agglomerati urbani e campagna spaventata debbono spendere per accaparrarsi l'indulgenza, per ripulirsi salotti e piscine. Perché di razionale c'è poco in quell'assuefazione, in quella manìa che attanaglia milioni di bambini, ragazzi, uomini e vecchi, da nord ovest a sud est, e deve essere presa per necessità fisiologica sociale e punto. Senza troppi ghirigori sociologici. Se c'è il cuore non c'è ratio. Lo concedo, spesso è "bevanda al gusto di", più che altro, ma allora gli studiosi del genere umano non devono farsi traviare dall'abito del monaco. E trattare l'argomento con altri titoli e in altre cartelle raccoglitrici.
Un carismatico tifoso esce di galera e ritorna al suo vecchio branco. Giusto pochi giorni prima di una tanto attesa trasferta, a scoprire che qualcosa è cambiato dentro e fuori dagli stadi. Perché, strano a dirsi, ma sulla strada verso lo stadio, un tifoso pensa ai casi suoi, incontra amici e sente parenti, è anch'esso, insomma, immerso nell'ambiente che lo circonda con annessi e connessi. In questo film problemi di cuore, di squadra, di gruppo e di vita sono mescolati in maniera realistica, senza mai prevalere gli uni sugli altri, senza che mai il dolore causato da uno di questi riesca a far dimenticare le altre ferite.
Pellicola molto più matura di quanto ricordassi. Claudio Amendola bravissimo in quello che, ormai, ai miei occhi, è il suo ruolo per antonomasia (unico?). Tutti gli altri attori si calano bene nelle parti. Il regista riesce a rendere autenticamente l'atmosfera che circonda un gruppo di ragazzi riuniti dietro al proprio striscione, il proprio simbolo. I romanisti che, osservato il film, hanno avvertito un declassamento d'immagine a causa dei due coltelli spuntati sull'interregionale per Torino, commettono due errori: nella pellicola i colori sono giallorossi, ma a questi è chiaro che potrebbero essere sovrapposti tutti gli altri; detto questo, dettaglio che dovrebbe raffreddare un po' gli animi, è innegabile che la cronaca sia plausibile. Soprattutto in quegli anni (fine '80), il malcostume coltello era in voga sui gradoni, negli autogrill e sui treni speciali.
Il fascino di quelle specie di strane gite con amici di cui sai solo il soprannome, ma per i quali ti prenderesti qualunque fracassata di botte, perchè li conosci ormai da anni, sono bravi ragazzi, vengono dalla tua città, ne conoscono gli odori, e che tifano per la tua stessa squadra. E' per questo che quando uno dei tuoi la butta dentro, può capitare che ti ritrovi abbracciato a quel tizo che di solito fa lo scorbutico (con smorfie alla Tony Montana).
Che poi gite non sono, anzi, assumono le sembianze di vere e proprie odissee, andata ed anabasi, in cui si effettua un salto su binari spazio-tempo paralleli, un po' per dimenticare, un po' proprio per non dimenticarseli mai più, quei momenti.
Il finale del film ci ricorda che davvero può valere la pena di dare alla vita di una persona, molto più simile a noi di quanto si creda, il suo valore originale, privo di colori societari; perché ne faccia fiabe da raccontare a chi verrà. Perché una morale c'è anche in queste storie. E perché è così che si sopravvive nella storia.
Vocabolario sincero, scenografia popular, e cinepresa che ti preme la testa in avanti, ti obbliga a guardare. Magari tacendo.
Bel film, su di un mondo fantastico. Non perfetto.
(depa)
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