Gira Solitudine

Una decina di giorni fa, col caro seguito di Elena, più quello sorprendente dei due "Grimaldi", mi sono diretto verso vico San Matteo per l'unico film affrontabile. Otto anni dopo il suo ultimo lavoro, il pittore e regista newyorkese Julian Schnabel ci porta ancora una volta tra i grandi della sua prima arte. Anzi, un grandissimo: "Van Gogh Sulla soglia dell'eternità" colpisce per il taglio e la resa registica, come per l'interpretazione del protagonista, Willem Dafoe, così efficace da consegnarci tutte le intime sofferenze del artista olandese.

Colpisce duro. Questo film non è una passeggiata. Quasi due ore di lunghi e solitari silenzi. Le camminate al fianco del protagonista non lasciano spazio per il paesaggio, la tensione è tutta diretta nella sua carne maltrattata, alla sua anima ferita. La luce, tutt'al più, quella stessa dentro cui vide cose uniche e che tale lo resero, riesce a permeare i suoi sguardi e gesti. Per il resto il percorso è davvero intimo e non scontato. Il risultato è un film robusto, affascinante, impegnativo. Ben più maturo del racconto di ventidue anni fa, comunque apprezzabile, sul creativo afroamericano concittadino ed amico di Schnabel.
E più che le sue fiaccanti vicissitudini economiche, messe più in luce in altre opere biografiche su Vincent Van Gogh, a parer mio la pellicola si concentra sulla sua solitudine irrisolvibile, acuita dall'inedia forzata, certo, ma ben più profonda. La sequenza che mostra l'ingresso del pittore in una stanza al Sud, così diversa da come immaginata, è emblematica. La m.d.p. sbanda senza le forze del protagonista, braccato da gelo e frustrazione. Il malessere è nei movimenti macchina, l'angoscia pervade lo spettatore.
Per il resto, la logorante ricerca di una luce impossibile da toccare, ma che solo un artista dalla sensibilità implacabile, mettendosi in gioco, anzi incamminandosi verso la fine, può arrestare su tela.
Unico punto dubbioso, l'ipotesi dell'omicidio, contrariamente a quella ormai ufficiale del suicidio: dove queste fonti? Non resta che scavargli attorno, perché piuttosto dirimente, non tanto il mistero della morte, quanto quella della vita del tribolato pittore.
A fine serata, sopra i sarcastici "filmetto leggero eh?!", tutti contenti di non aver ceduto alle lusinghe di vecchi uomini con la pistola o tanzaniani riesumati, e di aver assistito ad una pellicola che pare vincere su tutti i piani. Resta quindi da scoprire se l'ultimo Cuarón, vincitore a Venezia 2018, abbia meritato di più.
(depa)

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