Ieri è uscito nelle sale un film italiano di due giovani registi, fratelli romani, sconosciuti. Sino a ieri appunto. Italoallergico, lo sapete, ma ormai vaccinato: cineasti ignoti, due ragazzi interpretati da altrettali attori sulla locandina, mi fido senza remore. Sino a coinvolgere pure il prof. Sini. Non so se "La terra dell'abbastanza", scritto e diretto dai gemelli classe 1988, Damiano e Fabio D'innocenzo, sia il bocciolo di una rigogliosa filmografia, ma so che può essere iscritto tra i rari e preziosi esordi dalle fulgide promesse.
Dalla prima inquadratura (nei titoli di testa i due han fatto i timidi, giusto un po' di jazz). La sensibilità per un'immagine ferma che, con le sue pennellate geometriche e sparse, già racconta di ciò che schizza per perpendicolari d'asfalto, sale e scende per scale ripetute e ripetute.
Le periferie lontane dalle città vetrina, destinate ai turisti, dove l'autentico degrado, contrariamente alle declinazioni in mano ai mezzi di informazione, a loro volta possesso di chi detiene il potere (leggi "i ricchi", che ne vogliono ancora e ancora), non è rappresentato né da un migrante che chiede spiccioli, che rovista nella spazzatura o si beve birre consolatorie, bensì il vuoto di relazione, la svendita dei rapporti sociali, la perdita di qualsivoglia sentire comune atto a difendersi (la propria classe contro l'altra, quella degli sfruttatori). Il solo sfacelo urbano è rappresentato, quindi, dai conseguenti ed idioti decreti Minniti, dalla famelica corsa alle scarpe di marca, dall'abdicazione a sé degli individui, assurdamente fiduciosi nel meccanismo di delega e rappresentanza (elettorale ma non solo), nonostante i secoli ormai abbiano dimostrato. Ponte di Nona, come la limitrofa Tor Bella Monaca, landa natale dei registi, tra i luoghi non degni di "investimenti", coi giardinetti a ricordare con ghigno diabolico ai ragazzi che non son quartieri per loro. Paradossalmente, proprio perché al di fuori delle traiettorie milionarie, queste zone avrebbero più possibilità di salvarsi dalla death race cui ci ritroviamo iscritti, ma le scorie sotterrate, ormai, infestano generazioni e sogni.
Nella pellicola, parole pesate, anche quando masticate con dialetto incomprensibile (ma non serve, basta uno sgrunt dei due amici in macchina per capire cosa scorre in quelle vene): "Perché tu pensi...non pensare". Ce l'hanno insegnato, non rimproverateci nulla. Le grinte di Mirko, le palpebre socchiuse di Manolo. Nessun pietismo o moralismo, nessuna facile conclusione. Resta l'inestimabile legame tra due amici, delicato quanto un soffione. Più forte ancora di quello tra genitori e figli, perché spesso più presente. I due compagni svolteranno, schiantandosi. Una storia comune, raccontata in maniera diversa.
Oltre ai due ottimi interpreti, Andrea Carpenzano e Matteo Olivetti, pochi, per fortuna, loro colleghi connazionali, per cui tutto fila abbastanza liscio. In effetti pure Max Tortora stranamente coinvolto, quindi coinvolgente (la sequenza del pettine è un esempio dell'ottima scrittura che sta sotto alla pellicola).
Debutto registico che colpisce per la sorprendente maturità in esso infusa. Si susseguono le sequenze dal contenuto "pesante", trattate però con calma, pacatezza, prendendosi il tempo di osservare (un silenzio denso di parole, un grido rivolto a nessuno); quasi con saggezza.
Quando il giudizio per un film tende a migliorare, dal "buon film" all'uscita dalla sala, per poi passare per il classico "però niente di nuovo", sino a riproporre, durante la stesura, le stesse intense emozioni provate durante la visione, solitamente è un buon segno...
Sino al finale, col rischio di non "chiudere", di perdersi e/o affrettarsi alla fine, i D'Innocenzo mantengono l'attenzione necessaria. Sequenze asciutte, dai giusti silenzi, dure, inchiodanti.
Alzandomi al termine della proiezione, chiedo al Sini: -"Piaciuto?", -"Filmetto leggero...", risponde sarcastico: non chiedevo di meglio. Andate a vederlo.
(depa)
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