Con lo scoccar dell'anno la sala Negri è tornata. Pur nel gelo di lassù, dove il vento sibila tra le palpebre delle verdi persiane, è stato magico impugnare la VHS 180, con su l'etichetta "L'uomo di marmo" - Andrzej Wajda (1977), e infoderarla nel fedele marchingegno. Poi il volume al massimo a recuperar le parole, il catodico che rilascia colori originali, tutti suoi...un polacco in videocassetta nella sala Negri, dicevo, non ha prezzo. Ancora una volta, come nel seguito "Di Ferro, il regista di Suwałki sfoggia la sua maestria nel "manipolare" il passato, in senso buono, come chi conosce la materia del ricordo (nazionale) e prova a renderla "senza orpelli": fine ambizioso quello di un "film onesto su quegli anni", soprattutto nel pantano delle socialdemocrazie, ancora vive nel '77.
Krystyna Janda ha il fisique necessario per la determinata protagonista. La sua Agnieszka è una donna che non molla, poco da sperarci. In perfetto stile poliziesco anni '70, la pellicola è intramezzata da riff musicali accattivanti, come subito dopo i titoli di testa e il rapido incipit nel tremendo corridoio di chi insiste e viene respinto, dove un sound sprintoso annuncia qualcosa che scotta, una sfida avvincente. E così sarà. Nowa Huta, radiososcura protagonista della pellicola, rientra nell'osannato "Piano dei Sei Anni" del 1950 (all'interno della retorica delle Infrastrutture e del Lavoro, qui palesemente strumenti di controllo e annichilimento). Stachanov e Nowa Huta, già di per sé, sono lezioni che questo film lascia a chi non le conosceva, o le aveva dimenticate. Ma il film ne serba molte altre, come le raccomandazioni sul NON prendere iniziative (ma come, proprio voi...?!), quando si ribatte (cantando una filastrocca): "Ci penseremo noi ad occuparci della cosa". In questo senso, la figura del controllore a volte amico, sempre infingardo, è esemplare di quegli anni di cortina pesante. Il clima di oppressione e rassegnazione dilaga permettendo al regime di reggersi.
Dialoghi ben studiati, carte scoperte con gesti riusciti. Risposte più che significative, come quella dell'ex compagno di lotte che parla di "riabilitazione" ("ma è stimato dal sindacato!"). Tutto ben studiato per dipingere un quadro invero agghiacciante.
Wajda si conferma disinvolto nel saltellare dalle immagini di repertorio, alla loro ricostruzione, sino alla rappresentazione dei giorni nostri. Lo avevamo già visto, nel seguito di questo film (sapete che sul 'Rofum si va alla rovescia). A parte l'unica pecca di alcune scelte musicali a volte davvero discutibili (come il contrappunto durante l'intervista ai nuovi cantieri di Huta, inaccettabile), il film è impreziosito da riprese da manuale (il ritorno in treno di Birkut a Nowa Huta), fatto che lo rende ancor più godibile.
(depa)
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