Qualche settimana fa, un bel trio s'è presentato al Cinema Cappuccini, in
quella suggestiva piazzetta tra il livello del mare e le antenne del Righi: Elena, Marigrade ed io, col solito ritardo snobistico, siamo pronti. In
programma il discusso "Birdman" (2014), del regista messicano,
classe '63, Alejandro González Iñárritu. Pluripremiato agli Oscar, ma non solo,
è riuscito nella stravagante ed inaspettata impresa di trasformare tutti in
critici cinematografici d'essai, cresciuti ad Altman o a Tim Van Patten
che si fosse...!? (ma sì, dai, grandissima quella serie!)
Molti scettici, una massa enorme di gente acuta pronta a non farsi prendere per
il naso dall'ammiccante scioglievolezza di questa pellicola affettatta e
"un po' paraculo". Ma anche una schiera di entusiasti ancora con gli
occhi avvolti in questa girandola ritmata da una batteria che non lascia scampo
per tutti i 120 minuti. Io, che in fondo sono l'unico vero divo, penso che ci
sia modo e modo di essere astuti. Niente di nuovo portato sullo schermo dal
regista che, d'altronde, ha sempre saputo toccare le corde giuste, spesso per
nulla melodiche e solleticanti (anzi), sin dagli esordi. Ciò che di profondo,
pesante, enorme, possa annidarsi dietro la cortina di un teatro è stato
mostrato da tanti (quasi tutti), riporto a caso, ché ho sonno: Allen, Altman, Bogdanovich, recentemente Polanski. Altrettanti hanno raccontato di stelle
cadute poiché schiave di sé, a causa dell'insollevabile
trofeo caricata sulla propria figura, comunque di bronzo ed ormai ossidato, che
diviene zavorra artistica ed esistenziale. Gli ingredienti sono questi ed
altri. Però la cottura e la messa in tavola, "ragassi, non
scherziamo, è roba d'Iñárritu, eh!". Senza se e senza ma, una pellicola
affascinante, che vince a mani basse perché fatta di una grana diversa da
quelle che la circondano. A parte le fotoromantiche sequenze sul
terrazzino del teatro newyorkese, in cui è interamente ambientato questo film
(alla faccia degli uomini uccello che imperversano la megalopoli e le
multisale), che risentono in effetti di un allestimento teenegeriale un
po' fuori luogo (ma è anche vero che, ormai, tra facebook e twitter,
i veri super eroi, anzi poteri, di oggi; mostro con faccia da pio e ali di
libro); dicevo che, a parte queste piccole defiances, la pellicola regge tutto l'ambaradan. Per
nulla scontato che un film così piaccia a tutti, da qui la mia ironia iniziale.
Sulla carta, anzi à la carte, dubito che qualcuno possa scegliere questo
piatto: rullante, ma non fast, vitale ma non bio. Ed invece, questo
hamburger di carne chianina d'alta qualità, complice un cast più che convincente
(Michael Keaton in cima, Edward Norton e Naomi Watts spalle perfette), può
davvero soddisfare tutti. Grande esercizio di stile, un laboratorio intensivo,
nei fondali del teatro e dell'uomo. Già visti pianisequenza volanti,
gente che entra ed esce parlando; però mai ascoltati con bassi così
potenti ed acuti così graffianti, dolby surround visivo che, per quanto
punti il petto in fuori, ho trovato azzeccati.
Altro peccato veniale, forse, il finale ridondante, reiterato; ma come scrivo
spesso, quasi sempre è sintomo di coraggio, a volte di arroganza, altre di
ignoranza; in questo caso, al regista sarà tremata un po' la mano, annusato il
profumo di gloria, ma s'è trattato di un piccolo sfarfallio trascurabile, in
una drum-comico-tragica, una ballata rock-surreale che auguri a tutti di
giudicare.
Gioca facile; ma, dopotutto, basta andare con tenacia sulla fascia e
passarla elegantemente al centro, perché arrivi il centravanti di sfondamento e
si esibisca in una rovesciata, per portare a casa l'ottimo risultato. Avercene.
(depa)
(depa)
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