Rapina a mano armata

Recensione LIV:
Grande appuntamento martedì scorso, in sala Uander. Appello: Io, Elena, Tigre, Albert d'Aporty. I soliti quattro, mitici. E solo per loro, quindi, entra in sala un maestro, la cui assenza  stava rischiando seriamente di minare la credibilità del nostro Cinerofum.
Signore e signori: Stanley Kubrick, newyorkese, classe 1928. Alzarsi prego. Anzi no, state pure seduti. Vorrei infatti chiedervi di compiere questo gesto di rispetto solo DOPO aver visto le sue invenzioni cinematografiche; sì, ha più senso. Farlo consapevolmente. Partiamo quindi con il secondo lungometraggio del regista americano: "Rapina a mano armata", del 1956. Vidi questo film una decina d'anni fa, distrattamente. Lo comprendo oggi, in primis perché non ci capii nulla (lo trovai macchinoso, confuso), inoltre poiché non colsi la perfezione che sta dietro a tutto il film. Magari ero stanco, chissà. Perché davvero risulta difficile trovare noiosa questa classica storia di rapina andata male. Si vede che che Kubrick è cresciuto a pane e fotografia prima, pasta e cinema dopo. Dal film emergono un'attenzione alle inquadrature, ai colori ed alle luci, ed un metodo nel girare e, quindi, raccontare gli eventi, che lasciano a bocca aperta. I fotogrammi trasudano sia originale inventiva, sia maniacale attenzione ai particolari. La storia viene snocciolata in maniera chiara, nonostante venga fatto mediante l'uso di una nuova tecnica (indagheremo in tal senso...guardando altre pellicole, come la "Sierra" di J. Huston), chiamata flashback sincronico, per la quale un evento viene narrato più volte ma da punti di vista differenti; credo venga a tutti in mente un tal Tarantino, il quale ha saputo sfruttare alla grande questo costrutto cinematografico. Quindi, se la storia vera e propria non è niente più che una rapina fallita per caso, è il come viene raccontata che innalza Kubrick nell'Olimpo dei grandi maestri della Settima. Poi vabbè..."fallita per caso"...qui ci sarebbe da scrivere molto, per aggiungere qualche riga ai grandi capitoli, già redatti, intitolati "Ineluttabilità del destino".
Di sicuro il film insegna che i fattori fondamentali della sorte di un uomo sono due: il caso e la donna. Ugualmente incisivi; il criminale che dovrebbe stare ancora più attento degli altri individui a questi due elementi, spesso sbaglia nel dare loro poca importanza, o addirittura nell'ignorarli. Ma il caso è sempre dietro l'angolo, la donna ormai è in tutti i viali; il delitto perfetto diviene azzardo. Il frutto di questa scommessa andrà a rimpinguare le casse di chi sta più in alto. Finirà tutto in una strage ("The Killing" è il titolo originale del film); se non ci sarà il danno, ci sarà comunque la beffa (sotto le sembianze di un cagnolino allo sbaraglio?); alla mente del diabolico piano non rimane altro che rassegnarsi e guardarela scritta "The end" ingrandirsi, incolonnata tra due piedipiatti.
Ci sentiamo al prossimo Kubrick.
(depa)

1 commento:

  1. Mentre guardavo questa pellicola, il primo pensiero che mi è saltato in mente è stato: Steven Soderbergh e George Clayton Johnson (Ocean’s Eleven) non si erano davvero inventati nulla di nuovo!
    Poi però la storia prende una direzione radicalmente opposta, per colpa soprattutto di una donna traditrice e opportunista (appunto alterego di “Tess” Roberts) e della sfortuna sottoforma di quel fastidioso cagnetto di cui scriveva Depa ai tempi.
    Volendo analizzare il film, concordo con la recensione: grande capacità di Kubrick di narrare attraverso una voce fuori campo che “aiuta” lo spettatore nei momenti più incasinati, la tecnica del flashback sincronico che viene usata con estrema chiarezza e raziocinio (cioè, si capisce sempre alla perfezione e in un istante a che punto è tornata indietro la storia) e i fotogrammi che “trasudano sia originale inventiva, sia maniacale attenzione ai particolari”.
    Il caso e la donna… mmhh… se i fattori fondamentali della sorte di un uomo sono questi due… si salvi chi può! :)
    Un thriller/noir piacevole e coinvolgente.

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