In territori inumani

Mercoledì scorso è stato facile scegliere un film tra quelli nelle sale. C'è una produzione palestinese al "City" e di certo non vi rinuncio per una americana su supereroi, né una italiana su coppie in crisi (ma buffone). Ed anche a capire che la scelta di "Wajib" (sottotitolo italiano "Invito al matrimonio"), scritto e diretto dalla palestinese classe 1974 Annemarie Jacir, è stata ottima non ci si è messo molto. Dall'inizio alla fine, questo road-movie nei territori occupati, per salite e discese, strade e scale, mantiene la delicatezza necessaria per affrontare con lucidità uno dei casi politico-sociali (trattasi di esseri umani) più imbarazzanti della storia dell'umanità.

Sin dall'incipit esatto, tra una Volvo ferma su di un poggio e una musichetta gitana da paese simpatico-sgangherato prontamente tagliata. Prende metri quest'astuta sceneggiatura che permette di sfiorare i piccoli meccanismi che stanno dentro ai giorni dei palestinesi nascosti o braccati in terra israeliana. Tra antiche tradizioni e nuovi sotterfugi. Lentamente l'insieme degli individui lascia sedimentare le ore passate in un luogo, dando vita a nuovi rapporti (nuovi odi se il terreno è già in fiamme). Per cui, problema di fondo di qualsiasi scambio, vale la pena non mentire, non costruire su cemento già fatiscente. Perciò io direi, invece, che il problema sta proprio nel "lasciare credere quello che uno a voglia" (di fatti la regista a queste battute fa seguire con astuzia quelle sugli "effeminati", come dire: "anvedi che saggezza!). Sta alle nuove generazioni avere anche il coraggio di opporsi alle nuove, in barba a tradizioni e modi di pensare inequivocabilmente privi di senso.
I temi sfiorati, come detto, sono svariati. Per esempio, "il pratico e lo schifo". La consueta analisi inevitabilmente parziale di chi viene (o ritorna) da fuori. Lo snobismo di chi pensa che il traguardo sia un centro commerciale sfavillante (ed assortito!), la presunzione che ci portiamo appresso di holiday in holiday. Ergo: un telo di plastica farà pure anguscia, ma un cuore dilaniato forse di più. Al caffè successivo, l'ennesimo, si è più nervosi: chi se ne va tradisce? Chi rimane svendendosi fa lo stesso?. "Cos'è, dov'è questa vostra fantomatica Palestina? [di cui parlate voi su comode poltrone europee]. Io qui ci vivo!".
Una fugace battuta su cui pare nascondersi un grande peso: per la sposa, il matrimonio c'entra poco con lei..."cosa avrà voluto dire"? Questo matrimonio è per rivedere la madre? O altro? O forse nei territori massacrati dalle armi dei potenti, niente ha a che fare con niente, tantomeno gli affetti e i gesti con gli individui di una comunità torturata.
Sino all'ottima chiusura, senza parole inutili, ma con un cielo sui tetti che può bastare. Ad additare infamie ed assurdità.
(depa)

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