Libertà per i curdi, per tutti

Terzo appuntamento con l'Internazionale dei Cappuccini. Ah no, coi Cappuccini dei documentari. Mmh...con Mondovisioni dei documentari? Ok, giusto: con "Mondovisioni - I Documentari di Internazionale", presso i Cappuccini. Ieri sera in sala è comparso anche Barabba, in perfetto anticipo, per aprire un occhio sul genocidio invisibile del popolo curdo: "La ragazza che m'ha salvato la vita", del 2016, diretta da Hogir Hirori, classe 1980 nato a Dahuk (Kurdistan iracheno) e rifugiato in Svezia anni fa, come oggi altri milioni: la storia si ripete solo quando c'è da ammazzare e mettere in fuga.

L'etnia curda, cui fanno parte i fedeli allo Yazidismo, pure tra stracci, tende e corpi non nutriti, pare una sentinella di Madre Terra più premurosa di altri "civilissimi" popoli occidentali; seppur schiacciata tra folli belligeranti e infami affaristi; dai soliti consumatori di armi, cui qualche ricco industriale euro-americano fa prezzi forfait (anche i morti si contano così, laggiù). Questo racconto ha un grande valore proprio perché, senza perdere il contatto con gli spaventosi numeri che caratterizzano fughe, stermini, esodi di intere popolazioni, formate da più o meno piccoli gruppi etnici, si prefissa e raggiunge l'obiettivo di ridare dignità individuale a ciascuna delle persone che il regista incontrerà. Per cui, al di là della suggestiva e forse provocatoria dichiarazione racchiusa nel titolo, il fatto di mettere in luce una figura che pare abbandonata a se stessa (come di fatto è, riflettendo sul fallimento totale di quelle che in Occidente chiamiamo pomposamente istituzioni o organizzazioni) è un'operazione di improvvisa e nuova umanizzazione. Operazione che risulta efficace ai fini del racconto documentaristico, ma che diviene salvifica ed addirittura eroica sul campo si guerra. Non l'unica per fortuna, ma vale la pena sottolineare quando tale condotta è assunta da un film-maker.
Il documentario mostrerà senza troppi filtri le violenze in atto nella zona del Kurdistan iracheno, ritornando spesso in questi campi non luoghi dove camminano, corrono, si trascinano, incredibile a dirsi, esseri umani privati di qualsiasi diritto (ma, senza ironie, attorniati da qualche rada anima ancora sensibile, questa la vera forza da cui ripartire). Se da una parte il documentario offre l'ennesimo quadro sulla forza e sulla resilienza della specie umana, dall'altra, ancora una volta, ci dice che i primi avvezzi a voltare la testa di fronte ai disastri umanitari, fatti di corpi e spiriti, volti e nomi, siamo tutti noi. Gli stessi che a quei disastri, chi più, chi meno, hanno contribuito e stanno contribuendo.
(depa)

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