Dio, sempre lui

Veniamo un po' a "Silence", l'ultimo lavoro di Martin Scorsese, uscito qualche giovedì scorso nelle sale. Al Corallo io ed Elena non sapevamo nemmeno di che parlasse e quale fosse l'ambientazione: gesuiti nel lontano Giappone del XVII°. Basta grattacieli, solo lande magiche, pervase da fumi affascinanti (ancora salubri) e acque azzurrognole che suggeriscono la loro potenza. I cristiani se la passarono male da quelle parti, in quel momento. Poco male. Poca roba (oppure grandiosa! It dipends on...) e, cavolo, che azzardo Martin! Difatti questo racconto sulla fede, granitica e venata che sia, raccoglie ben poco sul tavolo verde degli spunti, oltre ai soliti ormai consunti.

Siamo nel 1633. Missionari portoghesi sentono la necessità di andare a rompere i coglioni ai giapponesi. Questo è il tema della pellicola, di ben ridotto appeal, se non fosse per il fascino accattivante di una terra che, certamente, ormai non esiste più. Fortuna che Scorsese e scenografi hanno deciso di esplorare quei colori, quelle luci. C'è qualcosa di esatto nella regia di Scorsese mostrata in questo film. Difficile definire la sensazione di sapiente e disinvolta cesellatura che si prova dinanzi alle sue immagini. Solido, il racconto avanza, tenendoci attenti alle vicissitudini. Sino a quando si intuisce che il campo della fede (esportata e respinta) è stato interamente perlustrato. Alla fine, il giocattolo di Scorsese, per quanto ben confezionato,  ha finito per annoiare il sottoscritto.
Noia che m'ebbe avvicinato già nei dialoghi ripetitivi e negli spunti, dal mio punto di vista, dal respiro ben ridotto ("Cosa ha fatto, cosa sta facendo e cosa farà Dio?!"...). Fosse durato mezz'ora in meno, che mi sarebbe mancato, se si esclude la splendida galleria d'immagini verdazzurre e l'interessante prova dell'attore protagonista?
In un harem di donne sterili, quali sono le religioni (quelli sono aborti, bambini nati morti), la figura più simpatica finisce per essere l'inquisitore, coi suoi "sì" e "parlate di me?" fintamente stupiti. 
Non che la cosa sia minimamente rilevante ma, contrariamente a quasi tutti gli altri film di Scorsese, questo non lo riguarderei. Respect, Martin (anche se la morte di Garrape, inciampato su un'arsella, potevi evitarla...). Detto ciò (contento me), il messaggio finale è chiaro: il migliore dei religiosi è il peggiore degli egoisti.
(depa)

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