"Ultimamente..."

Dopo "Quel pomeriggio...", accaldato e bestiale, s'è presentato all'"Altrove" Andrej Tarkovskij che, scegliendo l'argomento fantascientifico, ha spinto sul ring la bobina, rigorosamente versione integrale, di "Solaris". Del 1972, tratto dal romanzo scritto una decina d'anni prima dal polacco Stanisłav Lem, è un viaggio nello spazio della mente, in particolare del ricordo, magico marchingegno che tutto può realizzare.

Come racconta il giovane curatore improvvisato, ma volitivo e competente, "dietro alla m.d.p. il Tarkovskij maturo, cinquantenne" (in realtà aveva 10 anni di meno) "che con questo titolo vinse il Gran Premio della Giuria a Cannes di quell'anno". Tralasciando i roboanti, ma inaccettabili, accostamenti suggeriti da pubblicitari affamati, ci immergiamo in questa lunga e angosciante esplorazione.
Conosciamo i dispetti che mente e memoria si scambiano vicendevolmente. A questi ci siamo abituati, pur continuando a rischiare ad ogni episodio. Di non farcela, di perdere la bussola. D'altronde è chimica, non è fantasia. In più, se ci s'aggiunge quella zona grigia in cui le formule non valgono più, e l'anima vaga raminga senza direzione, lo scenario emotivo dell'uomo pare meno idilliaco di quanto si creda. "Non è follia, questa è la cosa principale" ("sarebbe una liberazione"), mettono in guardia i dotti protagonisti. Come dire, scavare, affacciarsi dentro di sé comporta una condizione ancora peggiore della pazzia (in questo senso gli psichiatri, più scaltri, sono salvi). A proposito di scavare, a Tarkovskij piacciono gli zoom, per intensificare immagini e attimi, e li usa con naturalezza rara (in tutte le sue forme, più o meno rapidi, in avanti o indietro). 
Il viaggio finisce, bisogna tornare in sé dimenticando tutte le ragazze incontrate, anche quelle ottimamente "strutturate" (di neutrini, e sia!, adoro i neutrini!). Dopo "un lampo di luce e il vento...", un altro flash; lampo scaccia lampo (altro che "una questione di coscienza"...).
Ah, non era questo il senso del...film?
(depa)

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