Melò in risaia con coro

Incredibile. Ieri sera, in sala Valéry, un mezzo miracolo. No, non per la presenza di due ospiti francamente evitabili (Mino attento e Baracca inutile); bensì per il fatto di essere riusciti a vedere quel "Riso amaro" (1949) che il Cinerofum inseguiva da anni... Giuseppe De Santis, però, lascia la sala un po' delusa: il suo melodramma risulta ben distante dal neorealismo puro che a noi piace, privo di reminiscenze di genere e la cui esperienza, per noi, non risulta assolutamente "relegata alla sperimentazione d'autore" (S. Bedetti), anzi.

Nonostante l'incipit con cui, forse con troppa foga e presunzione, la pellicola si pone ad un livello superiore alla roboante e vuota retorica radiofonica (di spettacolo in generale), bastano pochi attimi per cogliere qualcosa di stonato. Già nella celeberrima sequenza del balletto (ballone!) di Silvana Mangano, si fa fatica a sostenere lo sguardo dei due stupendi e dannati protagonisti. Una ha la cicca in bocca e pare aspettare il suo Dean con le siga al bicipite, l'altro si spera che sia miope perché troppo intento a bucare l'orizzonte.
Per fortuna, il nostro paese, soprattutto allora, scalpitava, riversando anche su celluloide la propria allegra e spensierata vivacità. 
Neorealismo la cui poetica, secondo me, non s'arricchisce di nulla "legando al proprio stile i modelli di genere hollywoodiani, compresi western e musical", tutt'altro. Anche il Mereghetti si esalta a tal proposito, indicando inoltre una "rara maestria nel fondere spettacolo e coscienza civile. Ohibò. Invero, in sala Valéry, s'è assistito attoniti ai frammenti di demagogia di bassa lega: povero Vallone, quasi sempre sua la voce del "pastore sociale", come quando istiga le mondine ad unirsi per la lotta comune e accusa ad una Silvana seriamente sgomenta di essersi resa complice di furto ("indossando la collana!!"). La guerra tra povere colle gambe in acquitrino, sullo sfondo (il solo sociale), è tragica davvero, e basta un accenno per tremare. Ma, in primo piano, è un melò dall'intreccio pretestuoso (figurarsi che, nel piano delittuoso il ruolo di Silvana viene scelto in quanto "non dà nell'occhio", gulp!), il fine quello di architettare conflitti passionali e duelli al revolver che paiono arrivare directly from U.S.A., che tiene soprattutto all'innegabile magnetismo dei volti (e corpi) dei protagonisti (come ha rilevato Barabba: "ma, attorno a loro, son tutti nani?!"). Personaggi principali la cui recitazione, fedele alla drammaturgia classica (seppur ancora acerba), oltre che "impostata", risulta avulsa da quella di tutti i minori attorno. Loro sì capaci di regalare i veri momenti "capolavoro", eterni, della pellicola, quelli della grandiosa coralità popolare, stremata ma viva, piegata ma tenace, rabbiosa, sorridente. Certi sguardi e certi dialoghi non potrebbero mai comparire in alcuno dei capisaldi del neorealismo italiano.
Con tanta pace del successo popolare. Come se scoprissimo oggi che pubblico non vuol dire qualità. Banalizziamo, ché il Cinerofum è maestro in questo: gira un capolavoro, quello sì, con un bimbo che piange e un attacchino sporco come protagonisti, poi fa' un film con due gnocche, "di cui una con", toh, ma che strano successo.
Quindi, concordo col F. Di Giammatteo e con G. Bianchi, le pecche ci sono e per certi versi, sono proprio le stesse del precedente film ("Caccia tragica" del 1947). Classicone del dopoguerra, avvincente e sensuale, e con sequenze finali che saranno d'ispirazione a grandi autori d'Oltreoceano ed europei (Kazan, Antonioni...); capolavoro non credo proprio.
(depa)

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