L'ultimo dolore

Il percorso psicomagico, di Alejandro Jodorowsky raggiunse, nel 1973, la sua vetta, proprio lassù: "La montagna sacra" parte come eresia surrealista, poi construens sino a raggiungere la piena libertà interiore, frutto di tutti i sentieri spirituali tracciati, conclusione di quello che, in ultima analisi, non è che un gioco.

Quadretti simbolisti dissacranti, il dito puntato verso la religione che non fa il suo dovere. Il regista cileno si propone ironicamente come santone e incastona colori e contrasti (letteralmente risorti nella versione restaurata), assurdità e provocazioni da leccare come cani gelato, gusto fondente che poi è altro, trattandosi di cani: becchiamoci 'sto schifo può esser oro come no. Geometrie alchemiche e ipotesi differenti. Come dice il critico Mario Testi, davanti agli occhi "un'eruzione di immagini quasi cancerosa, un accumulo di simboli", una frastornante e fantasiosa allegoria. Un ippopotamo si rinfresca in una fontana, bidet annesso. Tutto può accadere perché, contrariamente a quanto imparato dai nostri cervelli anchilosati, infinite sono le strade della mente. Quindi incamminati filosoficamente in questa girandola di colori! Dove i corpi si reinventano e la commedia umana si dipana unendo stelle (e pianeti). Orgasmo elettronico con cui tastare il terreno dei terreni. Università a gas, bordelli a gas, scuole e musei a gas, tutti in attività! Si ride, ma con tanta energia sprecata (ignoranza e genocidi), più di un minifastidio sale dietro il collo. (Un errore: qualcuno fa i miliardi proprio convincendo gli uomini che un'abitazione è necessaria).
Passeggiata cinematografica panica, dove "il possesso è l'ultimo dolore", dove con senso dell'umorismo si giunge "più umani che mai: cercavamo l'immortalità, è vero, ma almeno abbiamo trovato la realtà". Perché "siamo immagini, sogni, fotografie!".
Chiudendo colle parole di Sesti, pronunciate nell'intervista extra, Jodorowsky rappresenta al sommo livello "un'obiezione al discorso cinematografico" comunemente inteso.
(depa)

1 commento:

  1. Fa sempre piacere una chiacchierata, anche se a distanza, col simpatico e beffardo Alejandro Jodorowsky (sempre un ghigno tra le parole). Mentre ci racconta che la cosa è reciproca e che sarò il primo a godere del ritorno a quella che definisce "grande avventura, vissuta da un Jodo diverso, cambiato, un altro". Un'appendice di quel viaggio mistico che consiglio caldamente: come girare per un museo con l'avvincente audioguida, passando tra immensi e variopinti saloni, simbolismo astrale, alchemico, cabalistico e via via via. L'entusiasmo del trentenne radicale e immaturo, "quando ancora s'illudeva di fare film per cambiare l'umanità" ("Es la verdad..."). Oltre alle avvolgenti parole attorno all'universo dei tarocchi (fiabesche), anche disquisizioni tecnico-stilistiche; come l'interessante spiegazione della scelta, nel finale, di passare dallo stile estetico sin lì seguito (irreale, surreale, colorato, finto!), ad uno più realistico (d'altronde s'era già nei pressi di Realidad...), quindi gli screzi conseguenti con Rafael Corkidi. Poi gli autentici sciamani incontrati sulle pendici della sacra vetta messicana. Infine lo stravagante tecnico degli effetti speciali che, dopo aver scioccato e conquistato Friedkin, finì con questo ad esorcizzare una bambina dispettosa.
    Chiudo col ricordare che questo film si conclude con Jodorowsky che distrugge la dimensione dei simboli ("Basta de simbolos!"), dissacrante in primis verso di sé, e riportando una sua frase che dice molto della sua chiave artistica: "Perché mai dovrebbero muovere la bocca per parlare, è un film!".

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